Carcere, i fatti di Santa Maria Capua Vetere
Nelle ultime settimane è balzato agli onori della cronaca il carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, per le violenze denunciate da alcuni detenuti e documentate da video, audio e fotografie.
Le azioni, definite dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, «un’offesa e oltraggio alla dignità della persona e alla divisa» e un tradimento della Costituzione, si sarebbero verificate durante il primo lockdown.
In quel periodo vari luoghi di detenzione in Italia furono interessati da rivolte e tumulti: Salerno, Napoli, Modena, Rieti, Bologna, Trieste, Venezia e Foggia, con la fuga di una settantina di detenuti, tutti poi catturati nuovamente.
Questi eventi, da condannare senza se e senza ma, hanno messo in luce situazioni peggiorate sì dal Covid ma denunciate da anni dai Garanti dei detenuti, dai cappellani delle carceri e da associazioni come Sant’Egidio e Amnesty International, restate, però, inascoltate: il sovraffollamento dei luoghi di pena, la carenza di personale che non viene sostituito una volta andato in pensione, la mancanza di un progetto organico per il recupero e il reinserimento dei detenuti e spesso anche la fatiscenza dei fabbricati.
Tornando a Santa Maria Capua Vetere, di giorno in giorno le accuse aumentano e si moltiplicano le denunce da parte dei familiari dei detenuti, corredate da testimonianze audiovisive.
Il Garante campano dei Detenuti, Samuele Ciambriello, in una conferenza stampa ha, inoltre, reso noto che: «Le foto e le immagini viste sono solo una parte, quelle più raccapriccianti ce le ha solo la Procura» e ha aggiunto che: «Ai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato impedito di guardare la tv e di leggere i giornali nel giorno successivo all’esecuzione delle 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria».
Oltre settanta agenti di Polizia Penitenziaria, indagati ufficialmente, sono stati sospesi. Si succedono le dichiarazioni di esponenti politici di ogni schieramento. Le testimonianze dei detenuti sono agghiaccianti, come quella, rimbalzata su media e social, di Vincenzo Cacace: «Sono stato il primo ad essere tirato fuori dalla cella insieme con il mio piantone perché sono sulla sedia a rotelle. Ci hanno massacrato, hanno ammazzato un ragazzo. Hanno abusato di un detenuto con un manganello. Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso. Volevano farci perdere la dignità ma l’abbiamo mantenuta. Sono loro i malavitosi perché vogliono comandare in carcere. Noi dobbiamo pagare, è giusto ma non dobbiamo pagare con la nostra vita. Voglio denunciarli perché voglio i danni morali».
Significative le dichiarazioni rilasciate all’agenzia SIR da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei Cappellani delle Carceri, che, dopo aver condannato fortemente l’accaduto, ha sottolineato la difficile situazione nella quale opera, ogni giorno, la Polizia Penitenziaria.
Don Grimaldi, cappellano per molti anni in varie carceri italiane, si è detto, altresì, preoccupato da una possibile eccessiva contrapposizione tra i responsabili della sicurezza delle carceri e chi è affidato alla loro custodia e protezione.
A causa di alcune cosiddette “mele marce”, che sono certamente da estirpare, non è possibile generalizzare «mettendo in cattiva luce tutto il lavoro della polizia penitenziaria che ogni giorno con sacrificio e grande professionalità svolge il proprio dovere».
La cosa più necessaria, secondo don Raffaele, è «riportare umanità e dignità nei nostri istituti. Tutti hanno diritto alla speranza. Tutti hanno bisogno di vivere un vero riscatto sociale. Ripensiamo il carcere non come luogo di repressione ma luogo di riscatto, per aiutare i ristretti a vivere il cambiamento, favorendo il più possibile le misure alternative alla detenzione».
Cittadini e politici condannano fermamente queste violenze che hanno calpestato la dignità dei detenuti. Ma quante di queste persone – si chiede don Grimaldi – sono pronte e disponibili ad accogliere coloro che escono dal carcere e a sostenere il loro reinserimento?
Numerose associazioni, in tutta Italia, operano in questo senso, con risultati davvero buoni, come abbiamo raccontato anche nelle pagine di “Città Nuova”. Ma sono ancora troppo poche. È necessario arrivare alla consapevolezza diffusa che il carcere non è solo pena, ma rieducazione alla libertà, occasione di riscatto per la costruzione di un nuova vita.
Nel 2019, incontrando i responsabili della pastorale carceraria, papa Francesco affermava: «È più facile reprimere che educare, negare l’ingiustizia presente nella società e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori, che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini». Auspicava, invece, che la società riuscisse a «superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita» (papa Francesco, discorso ai responsabili nazionali e regionali e nazionali Pastorale carceraria, 08 novembre 2019).