Caravaggiomania e dintorni
C’era da aspettarselo. L’ombra di Caravaggio diretto da Michele Placido – in uscita il 2 novembre – è l’ennesima versione sul pittore lombardo, dopo quella di Darman, ormai classica e la fiction televisiva con Alessio Boni. Placido paragona Caravaggio ad Elvis Presley o, nella attuale reviviscenza pasoliniana, a Pasolini. Pittore controcorrente, cane sciolto, rivoluzionario, perseguitato dalla Chiesa, capopopolo in cerca di verità. Sarà che in tempi di pensiero “magro” ci si butta a rivitalizzare il passato riproponendolo nei soliti cliché – quello del pittore maledetto appartiene ormai al grosso pubblico – ed ecco allora il prodotto lussuoso come costumi, luminosamente “caravaggesco” dove troviamo Michelangelo, angelo dannato (Riccardo Scamarcio, un po’ gonfio), nei locali notturni tra prostitute e prostituti, miseria e povertà in vicoli oscuri, alternata alla magia dei palazzi cardinalizi e dei porporati raffinati fin troppo (Placido come cardinal Del Monte) e agli ambienti vaticani dove il papa Paolo V incarica il prete-detective (Louis Garrel) di seguire il pittore per verificarne l’ortodossia.
Pittore eretico che dialoga con Giordano Bruno, ama riamato la marchesa Colonna (Isabelle Huppert) e utilizza come sante modelle cortigiane come Lena (Micaela Ramazzotti nella consueta parte di borgatara) e duella con Tomassoni, lo uccide ma la pagherà cara. Le location nel Lazio, a Napoli, a Malta sono suggestive e il film-fiction funziona. Perché di fiction pseudostorica si tratta, come tante sugli schermi e sulle piattaforme (il Trono di spade ha insegnato bene). La verità storica fa acqua in diverse parti in un lavoro dove astutamente si esalta una Chiesa pauperistica – c’è anche Filippo Neri –, si fa di Caravaggio quasi un regista anni Cinquanta o pasoliniano e la fantasia corre. Bello da vedere, recitato benino, vuole essere una ricostruzione umana e artistica del Merisi e degli ambienti in cui opera, dimentica altri artisti protetti dalla Chiesa (anche lui lo fu, basti pensare al cardinale Borghese) come Reni o Pietro da Cortona. Il Caravaggio-Scamarcio è prodotto adattissimo alla fiction per il pubblico, riproponendo le opere dell’artista e i l suo modus operandi. Ma forse il cliché stanca e, nonostante tutto, in un lavoro fin troppo affollato, nemmeno Placido è riuscito a liberarsene.
È un sollievo trovare in Italia un lavoro piccolo ma intelligente come La stranezza diretto dal palermitano Roberto Andò. Come venne a Pirandello l’idea di Sei personaggi in cerca d’autore? Sono due becchini di Agrigento (bravissimi Picone e Ficarra) che recitano in farse irresistibili, dimenticando il lavoro, con una scalcinata compagnia locale a fornirgli l’ispirazione. Un Pirandello amareggiato (Toni Servillo, perfetta maschera dolente, una volta tanto libero dalle solite smorfie) li conosce quando torna in Sicilia per un lutto e per trovare Verga. Li segue, conosce la vita dietro le quinte di questo piccolo mondo squinternato (indimenticabile la filastrocca con i diminutivi musicalissimi dei nomi siciliani) che è già teatro di vita reale. Finzione e vita, teatro e realtà si uniscono in un film costruito con parsimonia intelligente, a dire che a volte basta poco per dire cose profonde, condendo di giocosità l’amaro della vita.
Un film crudele è invece The Menu di Mark Mylod, storia di uno chef impazzito nel suo narcisismo che invita ad una cena gente straricca, la quale tutto si aspetta tranne un crescendo di terrore fino ad una ultima sconvolgente portata. Un thriller psicologico che, piatto dopo piatto, evidenzia le debolezze, le ombre degli invitati e dello stesso chef in una sinfonia della morte purificatrice dall’indubbio significato metaforico. E lo chef, cioè un grande Ralph Fiennes, è il deus giustiziere del proprio e altrui narcisismo, da cui si può salvare solo chi si trova lì per caso e non ha nulla da perdere. Interessante.
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