Caracalla sognò un impero universale

Un recente tentativo di far chiarezza sulla discussa figura di Caracalla, l’imperatore che si macchiò di gravi colpe ma in soli sei anni diede una dimensione nuova all’idea di Roma.

Nacque come Lucio Settimio Bassiano, divenne imperatore dal 211 al 217 d. C. col nome di Marco Aurelio Severo Antonino Pio Augusto, abbreviato in Marco Aurelio Antonino Augusto, ma è meglio noto col soprannome di Caracalla, dal mantello gallico (caracallus) che era solito indossare (e qui subito vengono in mente le grandiose terme romane che da lui si denominano, inferiori solo a quelle di Diocleziano: una vera “cittadella del benessere” sorta tra il Piccolo Aventino e il Celio). Nato nel 188 a Lugdunum, l’odierna Lione, dall’allora governatore della Pannonia Lucio Settimio Severo (futuro imperatore dal 193) e da Giulia Domna (futura detentrice di un potere mai raggiunto prima da una donna all’interno dell’Impero), Caracalla fu il secondo membro della dinastia africana dei Severi a indossare la porpora imperiale.

Tristemente celebre per dispotismo ed efferatezze (uccise il fratello Geta col quale non intendeva dividere il potere, ne eliminò i sostenitori e per le critiche ricevute punì la città di Alessandria con la strage di 20 mila cittadini e il saccheggio; inoltre fece giustiziare il suocero e, dopo averli esiliati a Lipari, la moglie Flavia Plautilla e il fratello di lei), riuscì impopolare all’élite romana. Non però alla plebe, grata per il complesso termale da lui fortemente voluto, e ancor meno ai suoi legionari e pretoriani, di cui si assicurò la fedeltà con ripetuti aumenti di paga, causa però di nuove imposte e di svalutazione della moneta.

Per far fronte alle accresciute spese militari e per cercare di aumentare le entrate, nel 212 (l‘anno stesso dell’inizio dei lavori di costruzione delle terme) Caracalla emanò quello che va riconosciuto come il più rivoluzionario provvedimento preso durante il suo regno: la Constitutio Antoniniana, che estendeva la cittadinanza romana, e quindi i diritti civili, a tutti gli abitanti dell’Impero di condizione libera, contro l’ideologia senatoria che ne ostacolava la concessione al di fuori della penisola italica.

Calvo, malgrado i ritratti pervenutici che lo raffigurano riccioluto e corrucciato, di bassa statura ma dotato di un fisico possente, univa ad un temperamento violento una capacità non comune di sottoporsi a esercizi faticosi e prolungati. Rude e soldatesco, non mancava tuttavia di formazione giuridica e filosofica. Avido di potere e di gloria militare, tentò di far passare per grandi vittorie le sue battaglie contro le popolazioni barbariche dei Catti e degli Alamanni, lungo il confine germanico-retico (in realtà pare che tali successi fossero stati “comprati” mediante trattative diplomatiche che avrebbero dovuto assicurare una pace duratura).

Per emulare il modello di sovrano ellenistico partecipe delle fatiche dei suoi soldati, rappresentato da Alessandro Magno, impose la falange macedone e avviò in Tracia e in Asia Minore una nuova campagna contro i Parti, il nemico secolare di Roma. Ma mentre apparecchiava la guerra in Oriente, nel 217 cadde vittima di una congiura ordita dal prefetto del pretorio Opellio Macrino. Aveva soltanto 29 anni. Errore fatale, secondo lo storico Erodiano, fu aver mantenuto nella sua guardia del corpo un centurione di cui aveva fatto sopprimere il fratello e che l’avrebbe ucciso per vendicarne la morte.

Non avendo avuto Caracalla un erede, gli successe a capo dell’Impero il prefetto Macrino, figura insignificante che durò appena un anno disgustando i romani col suo sfarzo eccessivo. Anche per questo motivo, dimentico delle trascorse crudeltà, il popolo rimpianse il defunto imperatore le cui abitudini erano state senz’altro più sobrie. A lui in seguito, su pressione dell’esercito, il Senato avrebbe accordato l’apoteosi, trasferite le sue ceneri nel Mausoleo di Adriano e degli Antonini all’Oltretevere.

Al discusso rampollo dei Severi è dedicato un accattivante studio edito da Salerno Editrice – Caracalla, di Alessandro Galimberti, – nel quale l’autore, docente di Storia Romana presso l’Università Cattolica di Brescia, oltre a sfatare pregiudizi come quello di un imperatore “tutto muscoli e niente cervello”, tenta un bilancio obiettivo di un principato durato appena sei anni. Bilancio certamente negativo se si guarda all’uomo crudele e sanguinario e alle fallimentari esperienze militari. Ma anche positivo se si considerano le opere pubbliche realizzate, le accresciute elargizioni di generi alimentari al popolo e soprattutto quella Constitutio intesa a dar vita a un impero universale che unisse Oriente e Occidente sul modello di Alessandro Magno. Quanto alla sua concezione religiosa, connotata da un sincretismo di fondo dei vari culti (senza tralasciare la divinazione, la magia e l’astrologia), rientrò anch’essa in questo disegno di un nuovo ordine ecumenico. Ecco perché vi trovarono spazio anche il giudaismo e il cristianesimo, religioni alle quali Caracalla non fu mai ostile.

Tra le molte divinità a cui egli rese omaggio, Galimberti ricorda Ercole, emblema di forza e coraggio, ma soprattutto «eroe portatore dell’ordine nel mondo per volere divino, che abbraccia tutto il genere umano e quindi tutti gli abitanti dell’Impero – così come si era proposto di fare attraverso la Constitutio –, rendendo così l’imperatore garante dell’ordine universale e legittimandolo in ogni pretesa del suo potere: un’esigenza questa che ben si accordava anche alla pretesa di Caracalla di reincarnare Alessandro Magno, anch’egli devoto di Ercole».

Non a caso i ruderi delle sue celebri terme, spogliate lungo i secoli dei marmi e delle opere d’arte che l’adornavano, hanno restituito, insieme ad altri capolavori statuari, due immagini colossali di questo semidio: i cosiddetti Ercole Farnese ed Ercole Latino, il primo ora nel Museo Archeologico di Napoli, il secondo nella Reggia di Caserta.

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