Cara Lucia

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Puoi condividere o no le loro idee. Puoi apprezzare o trovare fastidioso il loro stile.Ma ci sono persone – ahimè! molto rare – dalle quali hai sempre qualcosa da imparare. Enzo Biagi è uno di questi. Non ho trovato parole più belle, più vere, su di lui di quelle del card. Ersilio Tonini: Era un uomo di un’umanità intensa, attenuata dal gusto dell’ironia. Aveva la capacità di cogliere gli aspetti ed i limiti della vita umana, ma sempre con senso di pietà. Una cosa non accettava ed era la prepotenza, così come l’uso della ricchezza come strumento di dominio. Il suo è stato un giornalismo realistico, caratterizzato da quella ironia che un buon giornalista usa di fronte a coloro che nella vita fanno gli sbruffoni. In fondo, era rimasto il montanaro delle montagne bolognesi, che andava sempre ed ancora alla ricerca di segni di umanità. Enzo Biagi, nell’epoca attuale della concitazione informativa, d’un giornalismo che predilige l’aggressività, rimane il maestro pacato, il cronista sottovoce, che con la sua calma un po’ fuori moda cerca di riflettere a fondo sulle cause che originano i fatti. E non disdegna mai la battuta ironica: Il bello della democrazia è proprio questo: tutti possono parlare, ma non occorre ascoltare. Biagi ha accusato il grigiore morale della nostra epoca. Ha ricordato l’inestimabile grandezza del più fondamentale dei valori umani: Credo che la libertà sia uno dei beni che gli uomini dovrebbero apprezzare di più. La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà. Ha giustamente affermato che una volta erano altri tempi, ma soprattutto c’erano altre persone. Ma ha sempre creduto che la speranza della nostra povera Italia sta nell’umanità della sua gente. Biagi è un giornalista perché è stato sinceramente di parte: poiché il giornalismo imparziale non esiste. L’hanno ben insegnato Montanelli e la Fallaci. Non si deve ritenere grande giornalista chi si finge imparziale o chi è della nostra parte politica. Biagi non è caduto in questa trappola: è rimasto fedele a sé stesso. Ma in questi giorni, nei quali tanto si parla su di lui, ci piace spostare il tiro. E metterci un po’ dietro le quinte. Un luogo che a lui piaceva tanto. Spiare qualcosa della sua vita più intima. Soprattutto sbirciare tra i rapporti con le donne che hanno segnato, con presenze fondamentali, la sua vita: la madre, la moglie, le sue tre figlie. La prima: Bice, sua madre. Una donna forte, profondamente cristiana, che credeva nella giustizia e parlava con Dio in tono d’assoluta parità. Una donna che aveva saputo accettare la vita e i suoi dolori, e non aveva avuto paura di morire. Trasferì al figlio quell’humus autenticamente cristiano che il laico Enzo riconoscerà sempre con profondo affetto e senso d’appartenenza: Le verità che contano, i grandi princìpi, alla fine, restano sempre due o tre. Sono quelli che ti ha insegnato tua madre da bambino. L’altra: Lucia Ghetti, sua moglie. Sposata il 18 dicembre del ’43 nella chiesetta del suo borgo montano, Pianaccio. E lì sepolta a 81 anni, nel febbraio 2002. Lucia, la compagna fedele che gli è stata accanto per sessantadue anni. A lei Enzo – colpito anche dal grave lutto per la morte della figlia Anna di soli quarantasette anni – scrive una lunga lettera: Lettera d’amore a una ragazza di una volta (Rizzoli, 2003). Testimonianza del loro fortissimo legame, che in un certo senso dura tuttora: Le parlo continuamente, pensando anche a quel potere che l’educazione cattolica ci dà dell’idea che chi è là vede molto di più di quello che vediamo noi. È una lettera devota e discreta, colma di pudore, come ogni lettera d’amore deve essere. Una lettera che Lucia potrà leggere solo dal Cielo: Ora tu mi hai lasciato e poco dopo ti ha seguito anche Anna, la nostra ultima figlia, aveva soltanto quarantasette anni. Ormai buona parte della mia vita – sto giocando i supplementari – è fatta di ricordi. Io mi ritengo un superstite e, per rivivere la nostra storia, non mi rimane che la memoria. Lucia – racconta – lui l’ha conosciuta in modo del tutto normale. Una domenica pomeriggio del ’40, in una di quelle festicciole di famiglia, in cui s’arrivava con la bottiglia di vermut, la torta fatta in casa o l’ultimo disco di Rabagliati. Lei indossava un golf a righe grigie e marroni. Lui fu subito colpito da quella faccia pulita e serena. Dal suo sguardo sincero. Cominciarono a parlare. Poi il fidanzamento. Quindi nel ’43 – un periodo in cui nell’aria non vibrava troppo ottimismo – il matrimonio. Un matrimonio sereno, d’autentico amore: Ci siamo fatti per sessantadue anni una buona compagnia. Prima di morire lei ha chiamato le figlie e ha detto: io con papà ho vissuto sessantadue anni felici. Un momento che ha segnato la loro vita, fu quando, dopo l’8 settembre del ’43, insieme a Lucia, con una bicicletta a scatto fisso, andarono a Pianaccio e poi lui ha proseguito, per unirsi ai partigiani delle brigate Giustizia e Libertà . Enzo ricorda: Insieme siamo partiti da Bologna e abbiamo dormito nei fienili, sono settantacinque chilometri per arrivare a Pianaccio, tutti quanti in salita.Mi ricordo che con lei sulla bicicletta siamo passati davanti ad un plotone di giovani fascisti, facevano gli spiritosi, pesantemente gli spiritosi, nei confronti della ragazza che era in compagnia di suo marito, perché eravamo già sposati. Quello lo trovai umiliante. E i suoi ricordi continuano, perché i ricordi danno la certezza che si è vissuto: Ci siamo innamorati da ragazzi e insieme ne abbiamo passate tante. Mi ricordo un momento drammatico quando la Bice, la nostra prima figlia, ebbe la peritonite e stava per andare… beh, stava per finire male. Subito dopo la guerra ho passato due anni con il pneumotorace per gli stenti patiti sulle montagne, nei boschi al freddo nei quattordici mesi da partigiano. Se non avessi avuto Lucia… . Lui ama ricordare i versi di Edgar Lee Masters: Perché questo è il dolore della vita: che per essere felici bisogna essere in due. Lucia è stata la presenza fondamentale anche nella vita professionale. È stata lei, in varie occasioni, a consigliarlo sulle decisioni da prendere. Come quando Mondadori lo licenziò da direttore di Epoca e gli offrì un posto nel cimitero degli elefanti. Comunque, con ufficio, segretaria e un buon stipendio. Lucia mi disse che si può andare a fare la donna di servizio da qualunque parte, ma non dove sei stata una volta la signora. Mi disse che questo è un rimedio che per dignità non devi accettare. Lei era romagnola con un carattere molto forte, lei era per il sì o per il no, mai per il forse. Aveva la sicurezza che poi ce la saremmo sempre cavata. Mi diceva, sono sicura che se non ti fanno più scrivere dei libri, tu inventi una cartolina illustrata che racconta una storia con la quale riusciamo ad arrivare alla fine del mese. La loro, nonostante il successo e i soldi, fu una vita semplice, condotta sempre entro i limiti della decenza, al di fuori della mondanità e dei salotti sociali: Per noi – racconta – la sera diventava il momento in cui la famiglia si riuniva, seguivamo la vita delle figlie che andavano all’università e portavano i racconti dei giovani e di ciò che accadeva. Questa lettera fa venire in mente i versi di Una dedica a mia moglie di T.S. Elliot. Che più di ogni altri celebrano l’affiatamento coniugale che si consolida in anni di vita in comune: Alla quale devo la gioia frizzante/ che, al risveglio, fa vibrare i miei sensi/ e il ritmo che governa il riposo durante il sonno,/ il respiro all’unisono/ di amanti i cui corpi odorano l’uno dell’altro,/ che pensano gli stessi pensieri senza bisogno di parole/ e balbettano lo stesso discorso senza bisogno di significato. Poco c’è di più bello nella vita, che conoscere questa sensazione. Enzo e Lucia hanno avuto la fortuna di conoscerla. E hanno messo il costante impegno per renderla viva.

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