Cara lavatrice

Il contribuito alla liberazione della donna. La simbologia del vecchio bucato a mano.
Una donna e la sua lavatrice

D’estate, da piccolo in campagna, per andare dalla casa d’una nonna a quella dell’altra, camminavo lungo la strada sterrata che attraversava il paese e costeggiava la roggia. Qui c’era il lavatoio pubblico, quello grande. Di piccoli, usati da una donna alla volta, ce n’erano altri in paese, oltre a quelli di proprietà, racchiusi nei giardini delle case dei più abbienti, o ai margini delle aie delle grandi cascine.
Il lavatoio grande era coperto da una tettoia di metallo, l’acqua corrente era raccolta in una vasca e sulle pietre che scendevano nella roggia le lavandaie facevano il bucato insaponando sapientemente i panni, sfregandoli con energia, sbattendoli sulla pietra, stritolandoli, per poi riporli nel mastello e ricondurli a casa, dove li stendevano nei cortili ad asciugare al sole. Una faticaccia fare il bucato.
Anche se alla fatica si mescolava un certo piacere, perché sfregando sbattendo e strizzando, tra un lenzuolo e l’altro, le donne chiacchieravano, s’appassionavano all’ultimo pettegolezzo, alle volte cantavano assieme.
 
Poi quel mondo finì. Una strada asfaltata fece scomparire la roggia nel mondo invisibile del sottosuolo. Del lavatoio più nessuna traccia. Era arrivata lei, la lavatrice, che ingoiando i panni sudici, fissava la donna incredula e ammirata col grande occhio da ciclope del cestello. A quei tempi la lavapanni era pesante e rumorosa. Una macchina sobbalzante destinata a progredire e segnare un’epoca. Ora se ne sta appoggiata sul pavimento di quasi tutte le case del mondo occidentale, supertecnologica, ecologica, silenziosa. Fa il suo lavoro emettendo un lieve borbottio. Qualcuno afferma che la lavatrice abbia contribuito in modo determinante alla liberazione della donna. L’economista Chang dell’Università di Cambridge, sostiene che l’impatto sociale della lavapanni sia stato superiore a quello di Internet: gli elettrodomestici hanno contribuito a far uscir di casa le donne, portando ad un sensibile aumento della forza lavoro.
 
Chi è l’inventore di questo portento? La paternità è dibattuta. Pare che il primo a realizzare una macchina sfrega-panni sia stato un teologo: un certo Schäffern di Ratisbona. S’era nel 1767. La macchina era azionata manualmente con una manovella. Dopo di lui altri s’ingegnarono a progettare macchine analoghe, ma il salto di qualità arrivò solo a inizio Novecento con la  lavatrice elettrica. Non tutto però funzionò subito: l’acqua bagnava i contatti e per risolvere questo problema ci volle un po’ di tempo. Finché negli anni Trenta la lavatrice fece il suo prepotente esordio pubblico. In America ovviamente. Le donne stavano lì, con gli occhi sgranati a guardare il miracolo dei panni che giravano nel cestello, mentre l’acqua veniva forzata fra le loro fibre e, uscendo, trascinava con sé lo sporco.
In Italia la lavatrice si diffuse largamente negli anni Sessanta. La pubblicità faceva la sua parte, trasmettendo immagini di casalinghe affascinanti e raggianti, truccate a tutto punto, la vita sottile stretta in un seducente vestitino, la mano ingioiellata appoggiata sulla lavatrice di casa: «Metti il detersivo, chiudi il coperchio e rilassati!».
Nel mondo anglosassone oggi sono diffuse le lavanderie a gettone, dove si portano gli indumenti per lavarli e asciugarli in macchine professionali. Questi posti sono frequentati da uomini e donne: mentre i panni frullano nelle grandi lavatrici, spesso ci si ferma a leggere il giornale o un libro, si scambiano due parole con temporanei vicini di lavaggio, si possono fare conoscenze interessanti, a volte ci si può perfino innamorare. Hanno insomma qualcosa – beh, solo qualcosa – degli antichi lavatoi.
 
L’origine del nome “bucato” non è certa, forse deriva da secchio, mastello (buckat). O forse dalla modalità con cui un tempo si lavavano i panni lini: le lenzuola sudice si mettevano in un tronco d’albero smidollato o in un mastello di legno con un buco chiuso da un tappo sul fondo. Sopra si stendeva un telo bucherellato sul quale si versava l’acqua bollita insieme alla cenere di legna, il cosiddetto ranno; dopo un po’, tolto il tappo, si lasciava scorrer via l’acqua sporca e la cenere; quindi si sciacquavano i panni nel più vicino corso d’acqua, per poi stenderli al sole.
Acqua e cenere sono segni di conversione, il sole è segno della gioia della luce che segue la purificazione. «Siccome lo bucato imbianca lo drappo, così la confessione imbianca l’anima dell’uomo», dicevano i Padri della Chiesa. Cara lavatrice, viste così le cose, ci viene un po’ di rimpianto per gli antichi lavatoi. Ma solo un po’, sta’ pure tranquilla perché ci sei troppo utile. Sei entrata ormai a far parte delle nostre vite quotidiane. Come potremo fare a meno di te?

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