Capua: custodi della vita

Nel museo provinciale campano sono conservate numerosi statue di madri.
mater matuta

Quando vennero alla luce negli scavi ottocenteschi, queste centinaia di madri tozze e sgraziate, così lontane dai canoni della bellezza neoclassica a quel tempo imperanti, dovettero sconvolgere non poco archeologi e gente comune. Vennero tuttavia salvate, se non altro come oggetto di curiosità, e in buona parte accolte in questo Museo Campano che l’attuale suo direttore, il prof. Antonio Marotta, sta alacremente riportando al prestigio che merita.

 

Ma chi o cosa rappresentano queste statue sbozzate nel tufo tenero di Roccamonfina, in un arco di tempo che va dal V al II secolo a.C.? La stessa Mater Matuta (la "madre del mattino", antichissima divinità italica) oppure le offerenti che propiziavano la dea, cui chiedevano la grazia della fecondità? Forse l’una e le altre.

 

Certo, oggi che abbiamo fatto l’occhio e il palato all’arte espressionista e dei primitivi, siamo più capaci di apprezzare queste sculture, come dimostra il successo ottenuto da recenti mostre che hanno visto "in trasferta" una selezione di esse. Ma per certi versi la loro forza d’urto non s’è attenuata dall’800 in qua: ha solo cambiato segno. Queste madri infatti, che troneggiano maestose dai loro scranni, con grappoli di infanti sulle braccia o in grembo, sono segno di contraddizione in un mondo che deve imparare a riscoprire il valore della vita. E sotto questo aspetto il Museo Campano appare una sorta di santuario laico dove l’interiorità del visitatore può essere toccata e condotta in una sfera superiore, al di là del dato carnale e greve di queste figure.

 

Esse richiamano fra l’altro, per fattezze e atteggiamenti, certe donne del popolo quali ancora oggi se ne vedono in qualche "basso" napoletano o nel nostro Sud: sformate dalle gravidanze e dai rigori dell’esistenza, a reggere e ad allattare una numerosa prole, umili e superbe del loro carico prezioso, appaiono le custodi della vita. Sono mute, le madri capuane; ma se potessero parlare, non c’è dubbio che ripeterebbero con esse l’eduardiano «E figlie so’ figlie».

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