Capovolgere la narrazione di Dio

Il futuro della Chiesa, i giovani, l’unità e la diversità. Intervista a don Lauro Tisi, arcivescovo di Trento. Dal n° 8/2020 di Città Nuova

Don Lauro Tisi è originario della Val Rendena. Per molti anni è stato educatore nel seminario di Trento, poi vicario generale, infine “inaspettatamente” è stato nominato vescovo per la diocesi di Trento. 

Come ha vissuto gli anni di pastore di anime in seminario?

Gran parte del servizio è stato come padre spirituale e questo mi ha permesso di dedicarmi alla parola di Dio, all’ascolto delle persone, all’accompagnamento di seminaristi, laici, famiglie e giovani. Lo considero uno dei momenti più belli della mia vita.

Si parla sempre di crisi delle vocazioni, seminaristi distratti, giovani superficiali…

Ho una visione opposta. Ho fiducia nei giovani, la loro conoscenza è intrisa di vita, sanno ascoltarsi e ascoltare. Il problema è che sono emarginati da un sistema che scarica su di loro comportamenti propri degli adulti. Il problema sono gli adulti. Quello che si dice di male dei giovani, in realtà è la biografia degli adulti.

Cosa pensa del futuro della Chiesa?

Sono fiducioso, nonostante sia parte di una società narcisista. La felicità oggi è concepita come un “io” che si autoafferma, e non come un “io” che si dona e diventa libero. La vita appare un bene da consumare, invece che una chiamata ad impegnarsi. Per cui sono in crisi le vocazioni: di consacrazione, familiari, lavorative, politiche, di impegno civile. Ma questa pandemia ha riaperto domande nascoste. La vita è tornata a essere luogo di domande, per cui ho fiducia che partiranno percorsi di discernimento, con nuove scelte di vita.

Dio è sparito dall’orizzonte della gente?

Non è sparito, è solo raccontato male. Uso l’immagine del Dio capovolto: il nostro Dio è il Dio di Gesù Cristo, molto diverso rispetto a come gli uomini lo pensano. Chiara Lubich l’ha capito benissimo, tanto che l’ho chiamato “il Dio di Chiara”: nell’esperienza che ha vissuto nel 1949 si è trovata davanti un Dio che non immaginava, un Dio che nell’abbandono del Crocefisso rivela il massimo della sua potenza. Lei dice che «Dio si fa in certo modo “non essere” per amore». Ai piedi del Cristo abbandonato possiamo contemplare l’eccesso dell’amore di Dio.

Come raccontare Dio oggi?

Bisogna partire dall’umanità di Gesù Cristo. Lì ci sono le risposte, sorprendenti, di un Dio che si è fatto egli stesso domanda. Solo la vicenda umana di Gesù rivela la pienezza di Dio. Quello è “il luogo” per eccellenza della narrazione. Non è un Dio che domanda “riverenze” per sé, ma che offre la vita per noi. Un Dio che ci onora e ci umanizza, dandoci le istruzioni per vivere bene. Conoscere il Dio di Gesù significa conoscere l’uomo.

Lei vorrebbe una Chiesa “sale e luce”, spazio che accoglie…

Nessuno dice che sia buono il sale, ma la pietanza nella quale il sale si scioglie. Nessuno loda la luce, bensì la bellezza delle cose che essa mette in evidenza. La natura di questi due elementi è di essere per l’altro, non per se stessi. Ricordo l’immagine patristica che vede la Chiesa come Luna e non come Sole. Il grande pericolo in cui la Chiesa ogni tanto cade è di percepirsi come luce, mentre invece la riceve e la trasmette. Come afferma la Lumen Gentium, è Cristo la luce delle genti, non la Chiesa. Abbiamo bisogno di una Chiesa che, come il sale, si scioglie per far correre l’amore di Dio. Una Chiesa non muscolare, ma luce gentile. Nella misura in cui tu godi del bene dell’altro e sei impegnato a far gioire l’altro, in questa misura illumini la tua vita. Una Chiesa, quindi, che rifugge il proselitismo, che esiste per fare esistere gli altri.

 Come ha conosciuto il Movimento dei Focolari?

Ho incontrato Chiara Lubich a Trento, qualche anno fa. Una persona di grande semplicità e profondità. Ma il centenario me l’ha fatta scoprire veramente, l’estate scorsa durante la Mariapoli di Primiero. C’è stato un evento pubblico, con lettura di alcuni passi di uno scritto di Chiara (Paradiso ’49), che mi hanno commosso e sorpreso. Da quel momento ho iniziato ad approfondire i suoi scritti, aiutato da un mio compagno di messa che ha fatto una tesi su Piero Pasolini all’Università Sophia.

 Cosa ha trovato in questi scritti?

Il Gesù abbandonato di cui parla Chiara tocca una delle mie riflessioni sullo svuotamento di Cristo come luogo di pienezza. È un argomento che mi ha sempre interessato: cosa c’è dietro questo svuotamento? Mi sembra ci sia libertà, amore gratuito e totale. Cristo si svuota per far esistere me. È il trionfo dell’umano e della libertà.

Come lo spiegherebbe a una persona non credente?

Gli direi semplicemente che, se vuole gustarsi la vita, deve imparare a fare spazio all’altro, perché credente o non credente il narcisista è un infelice.

Lei ha scritto che lontano dall’unità non è possibile fare l’esperienza di Dio…

Il cuore del Dio cristiano è la comunione trinitaria. Per cui pensare di entrare nel mistero di Dio da soli, senza gli altri, è assurdo. Solo nell’incontro con l’altro, nel dono di me all’altro, posso approdare alla libertà e alla conoscenza del Dio di Gesù Cristo.

Lei ha anche detto che l’unità non è uniformità…

La Chiesa appartiene al contesto storico e sociale in cui vive, per cui anche in essa c’è la tendenza alla contrapposizione, allo scontro, al pensiero unico. La polarizzazione della società purtroppo è entrata anche nella Chiesa, ma la scoperta di Dio non procede con un pensiero che ne elimina un altro. La Trinità insegna a non aver paura delle idee e dei modi di fare diversi dai tuoi. L’unità cristiana ha i colori sgargianti della Trinità, per cui la diversità diventa festa. Il Dio cristiano non è un concetto, è una presenza, una persona che ha vita: tu ci entri dentro e continui a camminare, non lo puoi definire.

Lei vorrebbe una Chiesa “empatica”, che ha simpatia per il mondo…

Vorrei una Chiesa che non ha paura di vedere il bene fuori dai suoi confini, che gode del bene presente nella storia, da qualunque parte provenga. La testimonianza cristiana non può assumere i tratti dell’arroganza, dell’imposizione, dell’attacco al mondo come fosse un nemico. La Chiesa deve essere segno e strumento, senza occupare la scena. È se stessa quando lascia spazio al suo Signore, che è più grande di lei. Dobbiamo essere “prigionieri della speranza”, irrimediabilmente positivi sull’uomo.

Cosa ne pensa del dialogo con le altre Chiese cristiane, le religioni e i non credenti? C’è chi ha paura di perdere la propria identità…

Il Vangelo ci chiede di dialogare con tutti. Quindi sono proprio contrario a possedere un’identità “contro” qualcun altro. Dialogare significa essere cosciente che io non sono il tutto, ma appartengo a una terra di Dio dove abita la pienezza della vita, per cui dall’altro ho sempre qualcosa da imparare. Se alla fine del dialogo non ho imparato niente, ho fallito, perché vuol dire che non ho saputo vedere il bene che c’è nell’altro.

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