Caporali e braccianti in Italia, una lunga storia
La Puglia non è il villaggio privato ed esclusivo a 5 stelle che ha ospitato, vicino Fasano, l’ultimo vertice del G7. È una terra bellissima dove purtroppo persiste il grave fenomeno del caporalato che non si riesce a contrastare efficacemente.
Una piaga che colpisce soprattutto lavoratori stranieri, ma che ha radici antiche come dimostra il film di Abel Ferrara su padre Pio da Pietrelcina, arrivato da poco in Italia, che mette in evidenza la sofferenza di una terra, quella della Puglia, attraversata nel secolo scorso da uno scontro violento tra le masse di braccianti e il potere dei proprietari terrieri, veri e propri latifondisti del nostro Meridione.
Per capire meglio questa eredità è molto interessante il libro di Stefano Claudio Colucci dal titolo emblematico “Saper morire per la propria gente”, dedicato alla figura di Raffaele Pastore nato a Spinazzola nel 1881 e scomparso nel 1969 in pieno “autunno caldo”. Una figura esemplare del sindacalismo espresso da un altro pugliese, Giuseppe Di Vittorio da Cerignola, colui che “insegnò ai contadini a non togliersi il cappello davanti ai padroni”.
Colucci ha scritto un testo dove il racconto orale si associa ad una rigorosa attenzione ai documenti di una vicenda che appare sempre più attuale, perché legata ad un personaggio ormai poco noto, ma che Alfredo Reichlin aveva definito “l’apostolo del riscatto sociale delle masse povere del Mezzogiorno”. Ne abbiamo parlato con l’autore del libro.
In quale contesto storico e culturale operò Raffaele Pastore ?
Dopo l’Unità d’Italia, dal Tavoliere al Salento, la Puglia (ad eccezione del territorio collinare delle Murge) si presentava come un immenso luogo con fondi agricoli, di proprietari già assegnatari durante il Regno delle Due Sicilie, confermati dall’avvento dei piemontesi.
Parte di questi proprietari/assegnatari vivevano a Napoli e Roma (Principi e Conti del Regno, Doria – Romanazzi Carducci ed altri), ove i figli venivano educati nelle migliori scuole, e si recavano nei propri territori solo in estate per la raccolta del grano e servizi accessori, servendosi di mezzadri (uomini di fiducia) che gestivano e curavano per tutto l’anno i fondi agrari di competenza.
Grandi proprietà che richiedevano una notevole forza lavoro…
I braccianti ad inizio del 1900 erano l’unica forza lavoro in grado di assicurare la vita nei centri abitati, in alcuni dei quali vigeva ancora il fenomeno del brigantaggio. Parliamo di lavoratori in condizioni di disagio estremo, al limite delle esigenze di vita dell’uomo, cosi descritte da Vincenzo Padula, un scrittore calabrese (1819/1893): il bracciante “attualmente non è un uomo, ma appendice di un animale. Lavora per mangiare, mangia per avere forza per lavorare, poi dorme”. In generale, questa condizione di vita dei braccianti (non solo in Puglia) pone i presupposti per la creazione delle Leghe dei contadini che nascono intorno al 1901/1902.
Da cosa nascevano queste Leghe?
Si formarono per cercare un’identità lavorativa (i congressi di Cerignola e Spinazzola si tennero nel 1907/1908) e per contrapporsi (con la possibilità di stipulare contratti tra contadini e agrari) all’impostazione del lavoro data nei campi dai proprietari terrieri nei confronti di salariati impegnati dalla mattina alla sera nei campi per raccogliere il grano. Le lotte contadine sul territorio della Puglia furono represse violentemente provocando tanti morti.
Cosa fece il governo dell’epoca?
Nel 1906 Giovanni Giolitti nominò una commissione ministeriale che giunse a queste conclusioni: «Quale impressionante spettacolo queste torme emaciate di lavoratori. Chi ha avuto occasione di passare per le vie di Foggia e degli altri centri della Provincia, durante la stagione della mietitura è certamente rimasto colpito dal vedere tanta povera gente… distesa sui marciapiedi o dentro stalle ammucchiata, per passarci la notte su miseri giacigli». Da questo contesto di disagio bracciantile e salariale le Leghe Contadine (estese anche in tutto il territorio nazionale) diventano anche determinanti per la nascita del successivo movimento sindacale.
Come si spiega il prevalere del fascismo legato alla proprietà agraria nonostante l’esistenza di un grande movimento popolare dei lavoratori?
Mi piace il termine “prevalere del fascismo” perché la terminologia è fondamentale. Molto si spiega con i reduci del ’15-’18 tornati a casa senza trovare un lavoro degno come premio per il loro servizio. Una condizione di frustrazione in cui fecero presa le tesi dei socialisti seguaci di Mussolini fino alla Marcia su Roma del 1922.
Nelle “Memorie di Raffaele Pastore” si trovano casi di dirigenti socialisti passati al fascismo. Eclatante il percorso di un sindacalista di Torremaggiore (Foggia), Euclide Trematore (già segretario della Camera del Lavoro di Bari), più volte arrestato nel periodo pre fascista ma che, in seguito, diventò Ffederale del regime e reggente delle Camere di Commercio di Roma, Napoli e Messina. Una certa attrattiva arrivò dal “Corporativismo”, espresso ad esempio nella “Riforma Fondiaria” delle “Paludi Pontine” (insieme ad altri centri fondiari del Sud Italia) con il coinvolgimento di molti salariati e contadini in una nuova organizzazione di lavoro.
Un trasformismo che non riguardo tutti però…
Infatti negli anni Venti le forze contadine (Leghe) e sindacali (CGdL) e parte degli ex combattenti (Arditi) si opposero al fascismo come avvenne con lo sciopero generale del 1922 fortemente contrastato dai manipoli fascisti, giunti anche dall’Emilia Romagna, che dal 2 al 4 agosto assaltarono la Camera del Lavoro barese uccidendo 3 operai. La cittadella di Bari vecchia fu ben difesa dai giovani antifascisti, tanto che il prefetto restituì la Camera del Lavoro a Di Vittorio che, anni dopo, così scriverà: «Se almeno mezza Italia avesse potuto resistere, lottare e vincere come Bari, il fascismo non sarebbe mai arrivato al potere in Italia. Alla nostra patria sarebbero stati risparmiati il danno e la vergogna di venti anni di tirannia ed i dolori e la catastrofe determinati da una guerra ingiusta e non voluta dal popolo».
Quale era il livello di violenza in quegli scontri sociali?
Le rivolte contadine scatenarono una reazione violenta degli agrari e dei loro uomini, che non tolleravano l’assenza dal lavoro senza il loro permesso, tanto da colpire lavoratori inermi e anche donne in prima fila nelle manifestazioni. A Putignano venne uccisa Margherita Pusterla e successivamente a Torremaggiore Maria Rubino.
Pastore, come è scritto nel libro, fece una scelta nonviolenta, rifiutandosi di prendere armi per difendersi. In che modo operava?
Ad esempio durante una manifestazione a Corato, davanti ad una squadra di uomini con le pistole in mano intenzionati a non farlo parlare al comizio, rispose incrociando le braccia invitandoli a sparare se avevano coraggio. I tempi erano estremi. A Bari il 26 settembre 1921 il deputato socialista Di Vagno, avvocato che fece la scelta dei diseredati, fu colpito a morte con colpi di arma da fuoco alle spalle.
Dopo la caduta del regime, Pastore fu tra i protagonisti della rinascita del sindacato e arrivò ad essere eletto come parlamentare all’assemblea costituente. Una fase importante che merita di essere approfondita a parte. Ma oggi il perdurare del caporalato in Puglia e in tante parti d’Italia non rappresenta una sconfitta di quel cammino di liberazione dei braccianti?
Occorre prendere atto che la figura del “caporale” è ormai una presenza decennale sul territorio fondiario/agricolo del Sud, dove i terreni sono passati dalla produzione prevalente di grano, ormai in gran parte affidata alle macchine, a quella ortofrutticola, dove si inserisce la figura del “caporale” che ogni mattina (per periodi settimanali/mensili) si reca nei luoghi di vita degli immigrati e/o di cittadini italiani (paesi del Sud) e sceglie il personale da impegnare nei campi per circa 12 ore al giorno, assicurando una paga di circa 20 euro, da cui si sottraggono 5 euro per il trasporto e altri importi per “servizi” vari (tipo ricarica del telefono). I lavoratori stranieri immigrati, inoltre, a differenza delle migliori condizioni di vita prevalenti nel Nord Italia (penso al Trentino), quando finiscono il turno giornaliero, vivono in veri e propri ghetti che il più delle volte si creano temporaneamente nelle case coloniche abbandonate delle campagne, in condizioni di disagio simili a quelle degli stessi braccianti dell’inizio del secolo scorso. Un motivo che ci deve spingere, oggi, a riscoprire la lezione del sindacalista contadino di Spinazzola.