Caporalato, una lotta da potenziare
La Rete del Lavoro Agricolo di Qualità (ReLaq) ha compiuto dieci anni dalla sua istituzione presso l’INPS e ciò può rappresentare un’occasione per verificarne l’efficacia come strumento per contrastare il caporalato e lo sfruttamento di operai e braccianti agricoli, due fenomeni spesso collegati tra loro e talvolta gestiti da organizzazioni criminali mafiose.
Quando venne emanata la legge n.116/2014 che istituiva la Rete, si puntava a selezionare imprese agricole che, rispondendo ad una serie di requisiti, si qualificavano per il rispetto delle norme in materia di lavoro e legislazione sociale, ma anche per essere in regola con le imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Successivamente con la legge anti-caporalato n.199/2016 vennero introdotti nuovi requisiti e si integrarono i componenti della “cabina di regia” preposta a sovrintendere la Rete.
In seguito, grazie all’impegno della ministra del lavoro Bellanova, con un passato da sindacalista e bracciante agricola, venne approvato il Piano triennale di contrasto e prevenzione del caporalato 2020-2022, fornendo un ulteriore impulso alla ‘ReLaq’ con una funzione di strumento di pre-controllo sulle aziende agricole.
Nel corso degli anni si è così costruito presso l’INPS un elenco “certificato” di imprese agricole in regola con le disposizioni di legge, utile anche per indirizzare meglio l’attività di vigilanza.
Questo elenco talvolta si è rilevato utile per orientare le imprese acquirenti come la GDO nella scelta dei propri fornitori. A distanza di dieci anni dall’istituzione, la ‘ReLaq’ è cresciuta come adesioni delle imprese agricole, ma in misura contenuta e non pari alle aspettative.
Dati INPS disponibili sulla consistenza delle imprese aderenti alla ‘ReLaq’ su un totale nazionale di circa 160mila aziende agricole con dipendenti.
L’articolazione della Rete sul territorio nazionale è disomogenea, dove quasi la metà delle imprese aderenti è distribuita tra due sole regioni: la Puglia (24,1%) e l’Emilia R. (23,9%).
Seguono, a grande distanza, Campania (9,9%), Sicilia (7%), Lazio (6,5%), Piemonte e Calabria (5,3%), Veneto (4,7%) e Lombardia (4,6%).
Considerato che sono circa 160 mila le aziende agricole operanti in Italia che hanno operai agricoli dipendenti, si è raggiunta un’adesione limitata al 4% delle imprese.
Un obiettivo prioritario resta dunque quello di estendere le adesioni alla Rete. A questo scopo, da più parti si segnala la necessità di arrivare ad un progetto complessivo con criteri premiali per le imprese aderenti, come ad esempio l’assegnazione di un punteggio aggiuntivo per i bandi regionali ed europei (presente oggi solo in alcune Regioni per il Piano di Sviluppo Rurale).
Inoltre potrebbe essere utile stabilire un collegamento con la norma sulla concorrenza sleale, aprendo l’iscrizione alle imprese di tutta la filiera, come anche potrebbe essere incentivante il riconoscere alle aziende iscritte un marchio distintivo sui prodotti, una sorta di bollino etico.
Analogamente si potrebbero prevedere facilitazioni burocratiche rispetto alla condizionalità sociale (obbligatoria per la Politica Agricola Comunitaria entro il 2025), e altri benefici indiretti. Soprattutto si chiede di contrastare la concorrenza sleale, corresponsabile della chiusura di aziende agricole sane, di ridotte dimensioni, forse quelle più attente alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
Si segnala inoltre che dal 2021 l’Associazione della Distribuzione Moderna (che raggruppa VéGé, Esselunga, Coop, Conad), ha avviato un’importante alleanza con il mondo agricolo per favorire un comportamento etico e responsabile, attraverso l’iscrizione alla ‘ReLaq’, in modo da poter offrire opportune garanzie ai consumatori.
In questo ambito, nella prospettiva di rendere più incisiva la Rete, sarebbe auspicabile estendere l’iscrizione a tutta la filiera ortofrutticola, includendo anche le industrie di trasformazione e la commercializzazione stessa.
Analogamente ci si può chiedere se azioni simili non debbano necessariamente coinvolgere anche i fornitori internazionali, onde evitare una distorsione sulla filiera attraverso il contrasto effettivo delle pratiche commerciali sleali.
Altre indicazioni provengono dalle sigle sindacali dei lavoratori che, pur apprezzando l’assegnazione di punti per l’iscrizione delle aziende alla ReLaq, ribadiscono la necessità di considerare gli indici di coerenza (manodopera/superficie agricola) ed il collocamento pubblico dei braccianti come strumenti per prevenire le forme di sfruttamento.
Secondo le organizzazioni sindacali, a otto anni dall’approvazione della legge n.199/2016, le attese rispetto ad un efficace contrasto del caporalato e dello sfruttamento della manodopera agricola restano in larga parte disattese, limitando la sua efficacia alla sola fase repressiva.
Esaminando la situazione dell’agricoltura mantovana, si nota che l’adesione alla ‘ReLaq’ estremamente scarsa, arriva a 64 aziende, ovvero meno dell’1% sul totale delle adesioni a livello nazionale. Per potenziare la ‘Relaq’ è stato sottoscritto qualche mese fa un protocollo per l’apertura di uno sportello presso l’INPS dedicato a informare e sensibilizzare.
Questo rilancio nasce sicuramente come risposta a ciò che è accaduta a Latina, ma anche da una cresciuta consapevolezza che le problematiche relative al lavoro agricolo sul territorio necessitano di interventi di prevenzione che coinvolgano tutti gli attori sociali e le istituzioni per individuare buone pratiche ed esperienze virtuose da condividere.
Dai campi si ottengono prodotti agricoli che richiedono molta manodopera anche solo per brevi periodi, da reperire velocemente per i picchi di lavoro. È il caso della raccolta dei meloni, delle angurie, delle pere e delle insalate, mentre per l’uva e per il pomodoro si è meccanizzata.
Rispetto a queste esigenze di reperire manodopera, le imprese agricole non trovano sul mercato soggetti che garantiscano sempre il pieno rispetto delle norme previste. Come in altre zone del Nord Italia, anche nel mantovano il caporale può così assumere i tratti dell’impresa, anche cooperativa, che aggira le leggi sull’intermediazione in virtù della normativa sugli appalti e sub-appalti.
La terziarizzazione delle lavorazioni, affidate a soggetti esterni all’impresa, può diventare di fatto una forma subdola di caporalato. L’impresa agricola pattuisce una somma da riconoscere, disinteressandosi di come poi la cooperativa si relazioni con i suoi lavoratori-braccianti. In taluni casi si tratta di realtà che violano le disposizioni in materia di orario di lavoro, minimi salariali, contributi previdenziali, salute e sicurezza, approfittando dello stato di vulnerabilità o di bisogno dei lavoratori e lavoratrici immigrati, in qualche caso sprovvisti di permesso di soggiorno e in altri casi ‘sottomessi’ a connazionali che aggirano le leggi.
Per ovviare alla presenza di soggetti dubbi, soprattutto nell’ambito delle cooperative, negli anni passati c’era stato un tentativo dell’ente bilaterale mantovano di compilare una ‘white-list’ con le realtà in possesso di parte dei requisiti richiesti dalla ‘ReLaq’. Il nodo da sciogliere resta infatti la selezione di contraenti affidabili e ‘corretti’.