Caporalato e supermercati, la filiera da bonificare

Il nuovo schiavismo sul lavoro si combatte intervenendo sulla formazione dei prezzi dei prodotti agricoli. Intervista a Yvan Sagnet, ingegnere italo-camerunense, già sindacalista e bracciante agricolo, cavaliere al merito della Repubblica e fondatore dell’associazione “No Cap”. Verso Loppiano Lab 2018
ANSA/PRIMA PAGINA

È cavaliere della Repubblica italiana per volere del presidente Mattarella, perché è stato tra i protagonisti della lotta contro il caporalato esplosa a Nardò, in Puglia, nel 2011. Già rappresentante sindacale, Yvan Sagnet, 33 anni, ha fondato, nel 2017, un’associazione (“No Cap”) per combattere la piaga dello sfruttamento del lavoro agricolo in Italia a partire dall’analisi sul campo di un fenomeno patologico che, di solito, esplode all’improvviso sui media. Proprio come è avvenuto quest’estate, con la strage stradale che ha colpito alcuni braccianti agricoli stranieri in Puglia.

 ANSA / Foto di Paolo Giandotti
ANSA / Foto di Paolo Giandotti

Sagnet, nato in Camerun, snocciola dati e percentuali. Mette al servizio di una causa di giustizia e dignità i suoi studi da ingegnere e ci offre elementi per iniziare un lavoro di inchiesta che chiama in gioco molti protagonisti. Ne abbiamo già parlato nel 2016 incontrando l’esperienza di Sfruttazero.

Siamo abituati a fermarci, nell’analisi della filiera agricola, alla fase iniziale della produzione delle merci che poi arrivano sulle nostre tavole. Dove si annida il problema dello sfruttamento?
Quello della filiera è il tema dei temi. Il caporalato non si può sconfiggere senza risalire a monte del processo di produzione. Lo schiavismo presente nelle campagne è solo l’ effetto di un meccanismo che ha cause ben precise. Fin quando lasceremo, senza regole efficaci, la gestione del mercato alla grande distribuzione organizzata e alle multinazionali il problema è destinato a rimanere.

Da quale fonte attinge per la sua analisi del fenomeno?
Dal lavoro diretto come bracciante nelle campagne della Puglia e poi come delegato sindacale della Flai Cgil fino al 2016. Il lavoratore è solo l’ultimo anello più debole di una filiera che va cambiata perché insostenibile.

In che modo?
Con l’associazione No Cap sto lavorando per fra crescere una filiera autenticamente libera da ogni traccia di sfruttamento, senza cioè accontentarsi di certificazioni formali che non sono in grado di valutare l’intero processo di produzione. In sostanza non è accettabile che venga lasciata alla sola Gdo (Grande distribuzione organizzata) la determinazione dei prezzi. Ad esempio questa estate il prezzo del pomodoro riconosciuto al produttore è stato fissato a 8 centesimi al chilo. Una cosa vergognosa. Un vero insulto per chi fa impresa e deve tener conto del costo del lavoro, dell’energia come del confezionamento. Di fatto, nei confronti del potere del distributore, la forza contrattuale dei contadini, che rappresentano ancora il 70% della produzione agricola, è pari a zero.

Cosa accade se si rifiutano di accettare queste condizioni inique?
La Gdo si rivolge ad altri oppure va all’estero. Solo grazie a forti proteste quest’anno la percentuale di pomodoro acquistato dai cinesi è sceso al 20% dopo aver raggiunto anche il 40. Per le arance esistono i fornitori del Marocco in competizione con la produzione in Sicilia. Per non parlare del grano.

Come si fa togliere questo potere alla Gdo?
Oggi è molto difficile perché non esiste una legge italiana o europea che imponga, in tale settore, di non scendere al di sotto di un prezzo prestabilito.

Esiste un deficit della politica ma non è stata approvata una legge contro il caporalato?
In merito alla legge 199/2016 avevamo chiesto, 2 anni fa, a governo e parlamento di introdurre un sistema di certificazione etica obbligatoria per le grandi imprese come chiave per prevenire ogni forma di abuso sul lavoro. Oggi esiste la certificazione biologica che non tiene conto tuttavia del rispetto delle condizioni di lavoro. è bene che il consumatore, che può agire come fattore di cambiamento con la sua scelta, sappia questa differenza perché magari vede il bollino della certificazione biologica credendo che sia garanzia di lavoro senza sfruttamento. Il mancato riconoscimento di questa istanza è stata la leva per fondare l’associazione “no caporalato” con l’intenzione di andare alla radice di un fenomeno che cresce dentro una cultura dove il prodotto vale più della persona

Di casi ce ne sono fin troppi…
È proprio così. Due anni fa abbiamo perso una bracciante italiana, Paola Clemente, morta, sotto un tendone dell’uva, mentre lavorava all’interno di una filiera riconducibile ad una azienda leader del biologico che, pur sotto processo, continua a rifornire diverse catene di supermercati.

Cosa proponete concretamente ?
Stiamo creando un bollino “no cap” per certificare la qualità del lavoro e dei diritti, ma non solo. Abbiamo individuato 6 aspetti, dalla filiera corta alla decarbonizzazione del ciclo produttivo.

È quello che avviene già con la produzione delle cooperative “sfruttazero”?
Esatto ed è molto difficile

E poi si tratta di certificazione volontaria che intercetta quantità molto piccole davanti a volumi giganteschi. Non avete mai avuto una interlocuzione diretta con i grandi distributori?
La maggior parte non accetta il confronto e chi lo fa, è disponibile su questioni superficiali perché finiscono per accettare il meccanismo dell’autocertificazione dei produttori che invece ci sembra una presa in giro. Non basta cioè come rispondono alcuni, che loro sono a posto perché hanno le autocertificazioni e si affidano a controlli interni. Non si tratta di avere un marchio formale di qualità ma una fonte affidabile di certificazione. Ad esempio crediamo che non sia sufficiente avere un marchio di certificazione rilasciato da una multinazionale. Non è accettabile che il certificatore venga pagato dall’azienda a cui deve rilasciare il marchio.

Insomma chiedete che sia un soggetto terzo che assicuri il rispetto delle regole…
Esatto, c’è bisogno di cambiare il sistema che assicura la qualità del prodotto sotto ogni aspetto e in Italia l’impresa si rivela difficile perché esistono molti passaggi che il prodotto deve attraversare prima di arrivare in tavola. Nel 60% dei casi, dopo la raccolta ad opera dei braccianti, l’imprenditore agricolo si rivolge al grossista per piazzare la merce sul mercato. Prima di arrivare alla grande distribuzione o all’industria interviene il sistema dei trasporti che, secondo le inchieste della magistratura, è per un quarto infiltrata dalle mafie, soprattutto nel Meridione. Il percorso del pomodoro avviene dalla Puglia alla Campania. Bisogna controllare tutti i passaggi. Non solo chi lavora nei campi ma anche i trasportatori, come i “padroncini” ipersfruttati, e chi  opera nelle industrie della trasformazione o conservazione del prodotto, fino al controllo della proprietà dei campi, visti i copiosi investimenti nel settore dei proventi della criminalità organizzata.

La legge sul caporalato in dettaglio

La legge contro il caporalato poteva essere l’occasione della svolta radicale che chiedete?
È così ma come detto il legislatore ha deciso di tralasciare l’aspetto preventivo del fenomeno per concentrarsi su quello repressivo, che funziona bene perché prevede la confisca dei beni e la responsabilità in solido del datore di lavoro.

E il sindacato?
Condivide le nostre istanze a partire dalla necessità dei controlli da parte di un ispettorato del lavoro sottodimensionato e dal potenziamento dei centri per l’impiego, che attualmente non funzionano, per sottrarre ai caporali e alle varie agenzie interinali l’intermediazione di manodopera. Purtroppo in Italia i controlli sono rari ed esiste un sistema di corruzione che fa paura. Ma, a mio parere, il sindacato manca di visione sulla necessità di cambiare il sistema economico e produttivo. Quando si toccano questi temi, molti storcono la bocca.

Perché?
La tendenza è quella di limitarsi a difendere i diritti acquisiti, il tentativo di allargare il discorso rischia di creare conflitti tra i lavoratori stessi e di rompere gli equilibri con le stesse grandi aziende. Il sindacato come la Coldiretti e le organizzazioni dei produttori mostrano poca disponibilità ad affrontare la redistribuzione di ricchezza che avviene in questo ambito.

Cosa accade nel settore?
Negli anni ‘70, un terzo del valore aggiunto del settore agricolo andava a chi lavorava la terra, un altro terzo andava all’impresa e altrettanto alla grande distribuzione. Oggi è diverso. Il fatturato cresce. L’agricoltura continua a reggere anche durante la recessione e l’esportazione è volata anche grazie all’Expo di Milano del 2016. Ma la ricchezza prodotta resta per il 70% in mano alla grande distribuzione e multinazionali e il resto distribuito, in diversa maniera, tra braccianti e imprese agricole.

 Ansa-Centimetri 2018
Ansa-Centimetri 2018

Sono problemi strutturali…
Che hanno bisogno di risposte strutturali. Va cambiata la cultura e conseguentemente il modello economico di riferimento. Così come ha fatto il liberismo oggi dominante. Dopo un incontro in una scuola, una ragazza mi ha detto che voleva cambiare il suo modo di consumare, chiedendomi di conoscere i luoghi dove trovare prodotti senza sfruttamento. Ho avuto problemi a dare indicazioni concrete perché tutte le realtà virtuose conosciute (come ad esempio sfruttazero, libera, ecc) coprono a malapena il 2% del mercato. Il 75% dei prodotti passano attraverso la Gdo. Come facciamo ad arrivare ai 48 milioni di consumatori italiani?

Ma i ceti sociali impoveriti, e non solo, vanno alla ricerca di prezzi bassi ed è questa la leva vincente dei discount come delle marche più note ….
Dobbiamo lavorare sulla sostenibilità dei prezzi, ad esempio favorendo l’utilizzo di energie rinnovabili per abbattere del 40% i costi di produzione. Il contadino tedesco usa i pannelli solari per pompare l’acqua mentre il corrispondente italiano deve pagare l’Enel. Il costo energetico pesa per il 47% della spesa di un’impresa in Italia. E poi dobbiamo ragionare in termini di sistemi macroeconomici. Il prezzo dei prodotti etici è alto per mancanza di domanda. Aumentando la richiesta il prezzo al consumatore si abbassa secondo i noti meccanismi deflattivi. La grande distribuzione raggiunge milioni di consumatori a settimana in migliaia di punti vendita. Il mio sogno è quello di fare un patto in cui tutti guadagnano in termini di benessere generale grazie alla scelta di prodotti buoni e liberi da ogni ombra di sfruttamento. Piccole realtà come “sfruttazero” per i pomodori e “Sos Rosarno” per le arance dimostrano che si può produrre rispettando il contratto collettivo nazionale di lavoro offrendo un prodotto che costa solo 50 centesimi di euro in più di quello che si trova al supermercato.  Una differenza che possiamo superare facilmente allargando il mercato di questi prodotti fatti rispettando la dignità di tutti.

Non si può tuttavia restare in attesa della presa di coscienza da parte di imprese, Gdo e consumatori. Si può fare altro?
Bisogna prendere atto che esiste una lotta di classe, dell’alto verso il basso. I lavoratori hanno smesso di contrastare questo rapporto di sfruttamento, diversamente da quanto avveniva con Giuseppe Di Vittorio che cominciò difendendo i diritti dei braccianti in Puglia. Non è per caso che siamo arrivati ad un’alta concentrazione della ricchezza in poche mani, mentre aumenta il numero di coloro che soffrono la povertà.

In pratica bisognerebbe bloccare la produzione con lo sciopero?
Nel 2011 a Nardò in Salento, abbiamo organizzato il primo sciopero dei braccianti stranieri in Italia durato due mesi grazie al quale sono stati modificati i rapporti di forza. Gli accordi si possono chiudere da una posizione di forza, non di debolezza e minoranza. Oggi in Italia sembra che la protesta riescano a farla solo gli stranieri, ma così non può funzionare, perché occorre unità tra tutti i lavoratori. Altrimenti la situazione non può che peggiorare

Qual è la percentuale degli italiani tra i braccianti agricoli?
Il 60 %, sono la maggioranza e anche molti di loro, come sappiamo, sono sfruttati, ma esiste la strategia di dividere i poveri tra loro, facendo distinzione di nazionalità o provenienza. Alla radice bisogna capire che tipo di mondo abbiamo idea di costruire assieme. Perché alla protesta occorre associare sempre la proposta di un modo giusto di condividere i frutti della terra.

 

 

 

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons