Caporalato, lavoro povero e grandi profitti

Quando si tocca l’argomento caporalato e lavoro servile in Italia, si pensa erroneamente ad una questione che riguarda prevalentemente i braccianti immigrati. E, invece, l’ultimo rapporto redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil permette di capire le dimensioni di un fenomeno che non è confinato ai “dannati della terra” ma rappresenta un dettaglio di una struttura produttiva iniqua.
Il denso accurato volume è il frutto di un lavoro collettivo basato sull’incontro tra una radicata presenza sul territorio e una seria ricerca sociale di livello internazionale. La stessa presentazione annuale del rapporto su “Agromafie e caporalato” presso il centro congressi Frentani, vicino la Sapienza di Roma, permette di avere un’idea della comunità di studio, lavoro e azione che sostiene l’esistenza di un vero sindacato di strada, chiamato ogni giorno a dare ragione del suo essere “insieme per la giustizia”.
In Italia esiste una legge anti-caporalato approvata nel 2016 grazie anche all’emozione suscitata dalla morte nel 2015 di Paola Clemente, una bracciante italiana, uccisa dal caldo e dalla fatica mentre era intenta ad una minuziosa attività richiesta per la preparazione dell’uva da tavola (l’acinellatura che consiste nella rimozione manuale dai grappoli degli acini meno sviluppati).
Pochi soldi per molte ore di lavoro sotto un tendone asfissiante dopo un lungo viaggio iniziato nel cuore della notte. Un’organizzazione ben oliata, tra trasporti e sorveglianza sul campo, che si avvale della copertura di società interinali compiacenti per reclutare centinaia di braccia tra le famiglie a basso reddito. Donne soprattutto.
Poco o nulla è cambiato in questi anni, come ha detto Antonio Ligorio, il neo segretario della Flai Cgil Puglia, il 4 dicembre nel giro di testimonianze dai territori, dalla Sicilia al Veneto, che confermano l’analisi della similarità del tessuto produttivo agroindustriale italiano con quello della California studiata, circa 50 anni fa, dal sociologo Enrico Pugliese: una grande e innovativa produzione, capace di generare ingenti profitti, che convive con sacche di sfruttamento e lavoro sottopagato.
Abbiamo così, come ha sintetizzato Jean Renè Bilongo, coordinatore dell’Osservatorio, «200mila lavoratrici e lavoratori irregolari nell’agricoltura italiana, con paghe da fame in un settore come quello dell’agroindustria, che pure vale 73,5 miliardi di euro, di cui circa la metà proprio nella produzione e raccolta di frutta, verdura e ortaggi destinati alle nostre tavole».
I numeri offerti dal Rapporto sono seri e incontrovertibili, come ha riconosciuto il sottosegretario al ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Patrizio La Pietra, che ha ringraziato il lavoro dell’Osservatorio ribadendo l’intento comune, di contrastare «lo sfruttamento e il caporalato in agricoltura».
Ciò che emerge, tuttavia, è la differenza sempre più marcata nelle proposte di soluzione di un problema legato ad un sistema in cui non riesce neanche ad intervenire neanche, ad esempio, nella rimozione dei ghetti dei lavoratori in Puglia, nonostante le risorse previste nel Pnrr.
La legge Bossi-Fini, secondo il Rapporto, è tra le cause strutturali dello sfruttamento dei lavoratori stranieri perché, subordinando il permesso di soggiorno all’esistenza di un contratto formale di lavoro, spinge il bracciante ad accettare qualsiasi condizione di prestazione pur di poter restare in Italia in condizioni di regolarità.
La disgiunzione tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno è il nodo da sciogliere «per eliminare quel segmento di forza lavoro disposto a lavorare a qualsiasi condizione», come espresso nel Rapporto da Enrico Pugliese, presente e riconosciuto come maestro durante l’incontro al centro congressi di Roma.
La presenza dei caporali, con la loro organizzazione funzionale alla filiera produttiva di massa, si può eliminare affidando l’incontro tra domanda e offerta di lavoro all’ufficio di collocamento pubblico.
È, inoltre, possibile introdurre dei criteri equitativi da rispettare in termini di numero di lavoratori assunti per estensione di coltivazioni e/o volume di produzione.
Il numero delle ispezioni sul lavoro ha registrato una crescita nel 2023, ma si nota una tendenza al loro decremento associata all’introduzione dell’avviso preventivo dei controlli alle aziende.
Ma ovviamente, oltre alla repressione delle condotte illecite, spesso collegate alla presenza della malavita organizzata, resta la questione importante della carenza di strumenti in grado di promuovere la filiera del lavoro degno.
Insomma, l’appartenenza delle imprese alla rete del lavoro agricolo di qualità non può restare affidato alla volontarietà delle aziende, magari sottoposte ad ulteriore burocrazia, ma costituire un requisito per operare in un mercato dove, altrimenti, si premiano, di fatto, le pratiche illegali.
Tutti elementi emersi, durante l’incontro di presentazione del Rapporto, dagli interventi dei rappresentanti dell’opposizione parlamentare. Dall’ex ministro dell’Ambiente, il pentastellato Sergio Costa, all’europarlamentare dem Camilla Laureti, che non possono non riconoscere le occasioni mancate di cambiamento durante i precedenti esecutivi di centrosinistra.
Esistono, infatti, interessi prevalenti dei poteri economici con i quali occorre sapersi misurare e che spiegano alcuni elementi incompiuti della legge del 2016.
Un aspetto che è emerso in maniera indiretta nell’intervento, il 4 dicembre di Iolanda Rolli. La prefetta di Reggio Emilia, con una grande esperienza in materia nell’area di Manfredonia, in Puglia, ha parlato del caporalato come di una grande lavatrice per le mafie che traggono i maggiori profitti, dopo armi e droghe, proprio dal traffico di esseri umani. Una filiera di ingiustizia che noi tutti contribuiamo ad alimentare, secondo Rolli, «quando ad esempio compriamo un barattolo di pelati a un prezzo indecentemente basso, evidentemente frutto di lavoro sfruttato e mal pagato».
Eppure, occorre dire, che appare evidente purtroppo il limite del cosiddetto consumo critico. Non si può chiedere, cioè, alle fasce impoverite della popolazione, che cercano di sopravvivere tagliando anche sulla spesa alimentare e le medicine, di fare da argine a pratiche speculative legate al sistema complesso tra i centri di acquisto della distribuzione organizzata e la produzione agricola di massa.
Come afferma Giovanni Mininni, segretario generale della Federazione dei lavoratori agro industria (Flai) della Cgil, «ad essere sbagliato è lo stesso modello di sviluppo che va cambiato, lo sfruttamento e il caporalato non interessano solo il settore primario, sono una pratica costante in tanti settori produttivi».
È auspicabile, nel prossimo futuro, un tipo di analisi in grado di andare oltre i settori produttivi per allargarsi, al fine di rompere le catene dello sfruttamento, a quello della grande distribuzione e della logistica.
Sono significative, in questo senso, le parole che papa Francesco ha rivolto ai lavoratori della pesca nell’udienza del 23 novembre 2024 dove era presente, in un clima di festa, una folta delegazione della Flai Cgil: «La lingua latina ha forgiato una parola bellissima: consolazione, consolatio, che indica l’essere uniti nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ecco la via: essere uniti nella solitudine perché nessuno sia solo nella fatica e nel dolore».
Una visione capace di andare alla radice dell’impegno come già emerso nello storico del 19 dicembre 2022 tra papa Francesco e 5 mila delegati della Cgil intitolato “Pace, lavoro, e fraternità”.