Caporalato e colletti bianchi
Non si hanno notizie di Douda Diane, lavoratore migrante ivoriano di 37 anni, scomparso da giorni a Ragusa, in Sicilia, senza lasciare tracce dopo aver denunciato in un video le pessime condizioni in cui era costretto ad operare. È iniziata così, con un nome e una storia concreta, l’intervento del magistrato Bruno Giordano, direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Esiste il timore fondato che Douda sia caduto vittima delle mafie e del caporalato che governano pezzi significativi della nostra economia. Si chiama “Sole cocente” l’indagine della Procura di Ragusa che ha scoperto recentemente nel comune agricolo di Vittoria, il caso di 32 lavoratori addetti ad un’area di 15 ettari, di cui 20 in nero e 12 irregolari.
Il fenomeno non è un’emergenza improvvisa ma si tratta di una condizione strutturale che non può essere affrontata, come ha riconosciuto e posto in evidenza lo stesso Giordano, solo con lo strumento repressivo del diritto penale.
È nota la carenza storica di persone e strumenti di cui ha sofferto, finora, l’Ispettorato del lavoro e poi, come abbiamo messo in evidenza in precedenti articoli, esistono aree estese e disabitate delle nostre campagne, come nel foggiano, dove è difficile assicurare una presenza pubblica di controllo. Qualcosa è però cambiato se, come ha riferito il magistrato, si è passati negli ultimi 2 anni da 4 a 7 mila ispettori che hanno portato, tra l’altro, ad un aumento del 400% del numero degli interventi sul territorio.
E, tuttavia, si possono mobilitare pure le forze armate, ma resta intatto il potere delle filiere di produzione governate dalla necessità di abbattere i costi. La novità emersa, infatti, dall’ultimo Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto su Agromafie e caporalato della Flai Cgil è il focus dedicato a quell’area grigia presidiata dai cosiddetti colletti bianchi, quei soggetti cioè che la terra non la toccano e non la vedono ma si prestano a calmierare il costo del lavoro verso il basso. In che modo? Tramite l’appalto e il subappalto illecito reso possibile tramite «girandole di pseudo-imprese, spesso false cooperative, ma anche srl farlocche quasi sempre intestate a compiacenti prestanome» che, secondo il Rapporto, «rappresentano l’evoluzione dell’intermediazione illecita di manodopera, che può essere definita “nuovo caporalato” o “caporalato industriale”».
Suscita una certa impressione la mole di ricercatori, professori ed esperti che la Flai è riuscita a coinvolgere in questi 10 anni (il primo rapporto è del 2012) nell’esaminare una realtà diffusa della nostra economia, ma che si può comprendere solo a partire dal fatto di restare, come sindacato e tessuto associativo, sulla strada e nei campi, nei luoghi dove lo sfruttamento avviene alla luce del sole ma viene percepito come un dato inevitabile e forse necessario.
C’è anche da chiedersi, allo stesso tempo, come mai una tale sforzo collettivo, dai sociologi ai magistrati fino ai sindacati e alle caritas, non sia in grado, finora, di porre fine alla piaga dello sfruttamento lavorativo che si concentra sull’anello debole della catena produttiva.
Probabilmente occorre agire sulle radici culturali profonde di un tale dato di fatto. Lo ha colto in maniera esemplare lo studio promosso dall’associazione Vittorio Bachelet assieme all’università del Salento e alla Fondazione Tonino Bello laddove afferma che «il caporalato dà luogo a forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo al cui disvalore etico e giuridico non è opponibile alcun argomento di carattere economico: la degradazione del lavoro a fattore meramente produttivo, il cui costo deve continuamente essere compresso, e lo smarrimento della sua dimensione assiologica, di fondamento del patto repubblicano, caratterizzano i contesti nei quali si sviluppa il fenomeno». Il contributo della Bachelet, accolto nel Rapporto, entra nel merito delle questioni aperte grazie al lavoro di coordinamento di Renato Balduzzi, ex ministro della Salute e noto giurista.
In particolare è emerso che occorre fermare e invertire l’andamento patologico del mercato attraverso «il riconoscimento del giusto valore al lavoro e ai prodotti della filiera agricola e agroalimentare».
In questo senso uno degli strumenti individuati per realizzare questo obiettivo è quello dell’adozione dei contratti pluriennali di filiera, «tali da assicurare un maggior equilibrio nella distribuzione del valore tra le imprese». Non si tratta di una questione teorica perché esistono «importanti casi di successo», dove «il rapporto tra aziende agricole e aziende industriali della trasformazione si basa su accordi che individuano il prezzo della materia anche in base a valutazioni di tipo agronomico ed evitano che esso possa fluttuare soltanto in forza delle dinamiche di mercato».
Va in questa direzione il patto siglato tra l’Osservatorio Placido Rizzotto e BioAs (Associazione Nazionale Bio Agricoltura Sociale).
L’adozione di tali pratiche resta, tuttavia, affidato al meccanismo degli incentivi all’adesione alla rete del lavoro agricolo di qualità istituita con la legge 199 del 2016 che è conosciuta prevalentemente per l’adozione di misure penali di contrasto del caporalato che vanno oltre l’intermediazione di manodopera per colpire anche gli effettivi datori di lavoro.
Un meccanismo che può essere eluso in maniera formalmente legale tramite l’apertura di rapporti di lavoro dipendente con società residenti nella Ue. Per evitare tali forme di elusione ad esempio, l’ex ministro del Lavoro Orlando si è recato in Romania assieme al magistrato Giordano per concludere accordi antifrode con l’autorità di quel Paese dell’Est.
Sembrano maturare dai diversi contributi del Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto alcune proposte finalizzate ad incidere sui meccanismi economici dello sfruttamento e che meritano di essere dibattute apertamente in un tempo dove è anche molto pressante la direttiva di non dare fastidio a chi produce.
In questo senso si tratta, si spera, solo di un appuntamento rinviato l’incontro con Francesco Lollobrigida, nuovo ministro dell’Agricoltura e sovranità alimentare, invitato ma non presente all’incontro di presentazione del Rapporto, per capire come portare avanti il piano di contrasto al caporalato 2023-2025 che dovrà essere definito dopo il primo triennio segnato dai problemi della pandemia.
I dati del 2021, come ha ribadito il presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto, Jean-René Bilongo, dicono che «in Italia ci sono circa 230 mila lavoratori irregolari in agricoltura. Questi rappresentano oltre il 34% degli occupati nel settore primario. E l’irregolarità nel lavoro delle donne è sempre crescente: la componente femminile soggetta a irregolarità è pari a 55.000 unità. Nel complesso, su 820 milioni ore lavorate all’anno 300 milioni sono irregolari».
Il contrasto di tale violazione della dignità umana è un obiettivo che non può non essere condiviso nel segno del fondamento della convivenza democratica.
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