Capolinea a piazza Tahrir
L'assassinio dell'ambasciatore Craig Stevens, uomo di dialogo, e le susseguenti violente proteste attorno alle ambasciate statunitensi di Teheran, Il Cairo, Tunisi, Jakarta e altre ancora, così come la pubblicazione di vignette contro l’Islam su Charlie Hebdo, pongono inquietanti interrogativi sul destino delle cosiddette “primavere arabe”, che gli osservatori da tempo chiamano più prosaicamente “transizioni arabe”. Sulle rivolte scoppiate in Tunisia erano state riposte dagli occidentali speranze non fondate, per superficialità e mancanza di conoscenza reale. In questi ormai quasi due anni di “primavera” ho visitato alcuni Paesi della regione: Tunisia, Libia, Egitto, Bahrain e Qatar. Allorché si scorge la storia che “si fa”, le scene più semplici fanno riflettere e restano valide nel tempo.
I blogger scatenati
Il Cairo, 5 gennaio 2012. Sono andato alla ricerca della gente di piazza Tahrir, quella della prima ora, e l’ho trovata. Ramy Boulos (26) è un ingegnere medico, cristiano. Da qualche mese ha lasciato la professione per la difesa dei diritti umani. Lui a piazza Tahrir c’era già il 25 gennaio 2011. «Ho intuito che qualcosa di grande stava succedendo e mi sono precipitato lì». Non sa bene quali siano state le ragioni puntuali dello scoppio: «Credo che ad accomunarci tutti fosse il desiderio di una vita migliore: pace, libertà e giustizia sociale. Ci guardavamo in modo diverso dal solito, più libero e più fiducioso». Social network? «Abbiamo pubblicato video, interviste, paragonando le dichiarazioni dei capi dell’esercito e il loro effettivo comportamento».
Le manifestazioni di Avenue Bourguiba e di piazza Tahrir non hanno cessato di portare i loro effetti; anzi, è stata superata una soglia di non ritorno verso una ridefinizione del mondo arabo. I giovani che hanno dato vita alle rivolte hanno mostrato che i problemi del potere, della libertà e della laicità nei loro Paesi, per decenni sottaciuti, hanno bisogno di risposte adeguate da maturare all’interno del mondo arabo. La rivoluzione digitale ha sostenuto queste rivolte, rendendole possibili e amplificandole. Non basta Twitter a spiegare quanto è successo: la sete di libertà della gente, dopo decenni di dittatura e corruzione, non può essere fermata. Ma serviranno altri decenni per arrivare a un nuovo equilibrio.
I salafiti che gridano
Tunisi, 29 novembre 2011. All’Università statale di Manouba c’è stato un episodio grave: un centinaio di studenti salafiti ha preso in ostaggio il decano della facoltà di Lettere, il prof. Kazdaghli. La rivoluzione tunisina è stata smossa dagli studenti, perciò bisogna cercare di respirare il clima dell’università. Ecco qualche dichiarazione raccolta: «Ho partecipato a tutte le manifestazioni, sono uno di quelli che hanno cacciato Ben Ali. Ma la ramificazione del suo potere era tale che ancora non ce ne siamo liberati» (Ezir, 22 anni, biologo, viene da Sidi Bouzid, la città dove tutto è cominciato); «Ho votato salafita perché abbiamo bisogno di mantenere vivi i valori tradizionali della nostra società, senza farci travolgere dalla globalizzazione» (Butur, 25 anni, papà tunisino avvocato e madre francese); «Sarei ottimista, ma le barbe e i veli che crescono non mi piacciono proprio» (Pala, 26 anni).
Le popolazioni arabe, profondamente religiose, combattono l'atteggiamento occidentale anti-religioso con le armi a disposizione, soprattutto coltivando un loro “orgoglio arabo”, basato essenzialmente su un ritorno alla religione originaria. Il ritorno alla shari'a, la legge islamica, non è altro che un segno di questa tendenza, che ha visto nei wahhabiti, ieri, e nei salafiti, oggi, i maggiori esponenti. È in qualche modo una sfida quella che i musulmani arabi rivolgono all'Europa cristiana: voi avete eliminato Dio dalla vita sociale, relegando la religione nel foro interiore. Noi vi diciamo invece che Dio deve tornare ad essere il centro di tutta la vita dell'uomo, personale e sociale. Ma, è un fatto evidente, lo dicono senza la modernità europea, senza la necessaria distinzione tra sfera religiosa e sfera laica.
Sciiti vs sunniti
Manama, 30 dicembre 2011. Mons. Ballin, comboniano, è vicario apostolico dell’Arabia settentrionale. «Qui in Bahrain non c’è stata una rivoluzione islamica in senso stretto – mi spiega –, né è stata bruciata una sola bandiera statunitense. C’è un problema di politica interna, per via della gioventù senza futuro e dei ricchi che sono sempre più ricchi. Gli islamici stanno impossessandosi della primavera araba e i cristiani rischiano di dover scappare. Il futuro è assai scuro». Nei fatti, eccettuato il caso yemenita, nel Golfo Persico non è arrivata la “primavera araba”. In Kuwait le manifestazioni sono fatte da centomila persone che vorrebbero ottenere il passaporto. Il Bahrain è abitato per due terzi da sciiti, che non hanno alcun potere. Il governo emana leggi che intenderebbero favorire il dialogo, ma i membri sunniti della famiglia reale sono cinquemila, con rendite altissime.
Ogni primavera ha le sue caratteristiche: se la società tunisina pare essere stata più influenzata dall'Europa, facendosi trovare in qualche modo più aperta alle modalità di espressione della libertà, in Egitto la fortissima presenza dei Fratelli musulmani e lo stato di ignoranza di larga parte della popolazione hanno influenzato altrimenti le rivolte. In Bahrain la rivoluzione ha connotati diversi: la povera maggioranza sciita vuole accedere al potere, nelle mani della ricca minoranza sunnita. Per non parlare dello Yemen, Paese in cui la presenza di fazioni terroristiche è drammatica. Ci sono tante “rivoluzioni arabe” quanti sono i Paesi in cui sono scoppiate.
Assad non è Saddam
Il Cairo, 6 gennaio 2012. Gregorios III è patriarca melchita di Siria ed Egitto. Il suo parlare è da politico navigato: «Sì, da noi c’è un problema di libertà – mi dice –, come d’altronde in tutto il mondo arabo». Condivide quel che dice la stampa a proposito della situazione siriana? «Da noi lo sviluppo economico è buono, non c’è analfabetismo, ogni cittadino gode dell’assistenza sanitaria gratuita, le scuole sono gratis, le infrastrutture sono buone, c’è libertà religiosa. Si direbbe che non ci fosse bisogno di una rivoluzione. E tuttavia c’è un partito unico, il che non è un bene. Per non parlare dell’altro grave problema del rapporto, pessimo, tra sunniti e alawiti: questi ultimi hanno il potere pur essendo meno del dieci per cento. Per queste due ragioni si può cercare di capire il perché della guerra».
Bisogna chiedersi ancora una volta, guardando al caso siriano, se l'atteggiamento occidentale abbia favorito la canalizzazione delle energie espresse nelle rivoluzioni arabe verso una maggior libertà; o se, al contrario, abbia favorito il rafforzamento delle tendenze più radicali. Cosa sono stati capaci di fare i governi occidentali di fronte alla protesta? Poco. Hanno lanciato una affrettata guerra in Libia contro Gheddafi, aprendone un'altra ancora più ambigua contro Assad; sono stati alla finestra in Egitto, appoggiando i Fratelli musulmani per convenienza e non per convinzione; hanno lasciato nei fatti ad una società civile occidentale, volenterosa ma non fornita di mezzi adeguati, la tessitura di relazioni con i giovani delle rivoluzioni; ma hanno, questo sì, varato provvedimenti rigorosi contro l'immigrazione clandestina. Gli occidentali non hanno voluto o potuto appoggiare con mezzi pacifici le spinte arabe verso una maggiore libertà e oggi si ritrovano spesso ad appoggiare nei fatti il fondamentalismo.
Donne velate e svelate
Qurm, 2 gennaio 2012. Spiaggia d’incanto sull’Oceano Indiano, in Oman. Incanto. L’Italia è lontana mille miglia e gli stretti di Hormuz e d’Oman, controllati dall’esercito iraniano e infestati dai pirati, paiono appartenere a un altro mondo anche se sono a poche miglia da qui. Il sultano Qaboos è un uomo che ascolta, pare aver capito come gestire il popolo. Nel tavolino accanto siedono quattro donne omanite, due velate e due no. Nella massima naturalezza e nella più completa tolleranza. Forse Qaboos non è un campione di democrazia, ma ha certamente saputo trasformare il suo sultanato da uno dei Paesi più arretrati al mondo in uno dei più ricchi e con un’ottima distribuzione della ricchezza. Sultano escluso, ovviamente.
Come mai occidentali e Paesi arabi non sono stati avvicinati dalle rivoluzioni della libertà? L'atteggiamento occidentale è stato minato da un vulnus: l'idea di poter esportare la democrazia. Ma l'impossibilità di farlo è apparsa evidente già in Afghanistan e nella seconda guerra d'Iraq: le armi non portano con sé la democrazia, che nasce dal popolo e non dall’imposizione. Detto in altro modo, gli occidentali continuano ad avvicinarsi a questi Paesi convinti che le loro società siano molto più avanzate di quelle arabe e che quindi sarebbero quei popoli a doverci imitare, mentre noi non avremmo nulla da imparare da loro. Forse lo spirito colonialista non ci ha ancora abbandonato. Le popolazioni arabe avvertono molto chiaramente questo atteggiamento, anche se i più giovani la libertà la vogliono.
Il bouquet di grattacieli
Doha, 22 agosto 2012. Suq Waqif, caldo invadente. Il suq è stato ricostruito quasi per la colpevolezza che colpisce un Paese all’avanguardia nella tecnologia, nell’architettura e nella finanza. Ora il Qatar s’è messo a far politica, sotto la guida dell’emiro bin Khalifa Al Thani, entrando a gamba tesa in tutte le ultime guerre della regione (Iraq, Libia e Siria), a fianco ovviamente di Arabia Saudita e Stati Uniti, contro al Qaeda, spesso facendo il “lavoro sporco”. Arma privilegiata di questa offensiva politica è quella potenza di fuoco mediatica che è al Jazeera.
Dopo l'11 settembre 2001, lo sforzo dei Paesi occidentali contro il morbo del terrorismo è stato di natura essenzialmente militare. Armi sempre più sofisticate ed eserciti sempre più addestrati sono stati fatti scendere in campo, sperando di tagliare la testa al terrorismo. Bin Laden è stato ammazzato, ma al Qaeda vive in forme sempre più inafferrabili. Pensiamo alla situazione nel Mali, dove al Qaeda, non più contenuta da Gheddafi, in nome del jihad è diventata una gang di narcotrafficanti! Non servono droni e tank per combattere il terrorismo.
Comunità cristiane spaventate
Tripoli, 6 giugno 2012. Il governo provvisorio riesce a tamponare le emergenze, ma fatica a riportare la normalità nella vita economica, politica e sociale. Con la frammentazione delle tendenze tribali, che sotto Gheddafi erano state sopite, ma che ora riemergono talvolta con la costituzione di milizie. E la comunità cattolica? Si nota un timido ritorno alla normalità. «Le messe sono riprese e il lavoro sembra di nuovo assicurato per le infermiere filippine e per gli operai africani – mi spiega mons. Martinelli –. Ma, rispetto a prima della guerra, i cattolici sono meno della metà».
Sotto i rispettivi dittatori, le comunità cristiane potevano vivere in relativa libertà, praticare il culto, sopravvivere. La guerra ha rotto gli equilibri. Il futuro di queste comunità ora è incerto: va accompagnato da una politica occidentale d'inclusione e non d'esclusione, che capisca come il mondo arabo e musulmano abbia bisogno di trovare la propria via alla libertà, senza costrizioni dettate da altri. Solo così i cristiani saranno ancora liberi, solo così si potrà avviare un new deal, un nuovo accordo tra mondo arabo e mondo occidentale, e sperare nella fine del terrorismo.