Il caos dei dazi di Trump, esiste una strategia?

Sembrava che facesse solo la faccia feroce e, invece, Donald Trump ha messo in atto quanto annunciato aumentando le tariffe doganali per i beni importati dall’estero, con il 40% imposto alla Cina, il 25% in generale anche per le auto europee, con un trattamento di favore riservato come sempre al Regno Unito. Misure annunciate con l’abituale ritualità e i toni di sfida e minaccia verso il resto del mondo che avrebbe sfruttato e impoverito, in questi anni, i lavoratori e consumatori statunitensi.
La Borsa di New York ha registrato una flessione simile a quella post attentato alle Torri gemelle nel 2001, mentre l’Unione europea annuncia reazioni molto severe, con Macron che non nasconde la sua forte irritazione.
Il vero timore è l’effetto recessivo che questo conflitto commerciale produrrà nell’economia mondiale con la perdita dei posti di lavoro, il calo dei consumi anche essenziali con conseguenze politiche imprevedibili. Solo i beni di lusso non avranno contraccolpi perché l’elite dei super ricchi non ha certo problemi a fare acquisti sempre più esclusivi. In tale contesto l’Italia rischia come e più di tutti quale Paese fortemente esportatore, senza, tra l’altro, poter far valere i rapporti privilegiati derivanti dall’appartenenza dell’attuale governo all’internazionale dei conservatori che ha il suo leader mondiale nell’inquilino della Casa Bianca.
In parole povere ci si chiede: c’è una logica in questa follia? O Trump è solo un’apprendista stregone in grado di provocare danni incalcolabili? Ne abbiamo parlato con il professor Patrizio Tirelli, professore ordinario di Politica economica presso l’Università degli Studi di Pavia.
Qual è stata la reazione iniziale dei mercati finanziari all’elezione di Donald Trump e come si è evoluta tale risposta nel tempo?
Inizialmente, l’elezione di Trump aveva generato un’ondata di ottimismo nei mercati azionari, soprattutto negli Stati Uniti. Questo era dovuto, in parte, all’aspettativa di politiche di riduzione fiscale tipiche del Partito Repubblicano. Tuttavia, questo ottimismo ha iniziato a indebolirsi con il tempo. I mercati hanno cominciato a interpretare con maggiore cautela le politiche annunciate da Trump, in particolare le restrizioni commerciali e l’imposizione di dazi, che inizialmente non erano state prese completamente sul serio.
Poi è arrivato l’annuncio ufficiale di Trump che ha parlato di Giorno della Liberazione per gli Usa…
Lo shock è legato alla percezione che Trump sia realmente intenzionato a mantenere queste misure protezionistiche nel tempo e, soprattutto, alle giustificazioni fornite a supporto di tali politiche, ritenute carenti dal punto di vista scientifico e della competenza economica. Questa incertezza ha portato i mercati a preferire la liquidità, a vendere i titoli rischiosi, segnando una separazione tra l’impostazione degli investitori istituzionali e la politica economica di Trump, un evento senza precedenti per un governo repubblicano nella memoria storica.
Esiste un’’analogia tra il crollo della borsa in seguito alle politiche di Trump e eventi come l’11 settembre o l’inizio della pandemia di Covid-19?
L’analogia con eventi come l’11 settembre o la pandemia di COVID-19 è pertinente per quanto riguarda l’ampiezza della correzione dei mercati. Tuttavia, una differenza cruciale risiede nella risposta di politica macroeconomica. Mentre, ad esempio, durante la pandemia si è assistito a un intervento governativo volto a sostenere l’economia e i mercati, nel caso delle politiche di Trump, la situazione rischia di essere più complicata a causa della natura inaspettata e potenzialmente destabilizzante delle misure adottate e delle relative giustificazioni. A differenza delle crisi precedenti, non si intravede un intervento macroeconomico di sostegno con lo stesso taglio.
Quali sono le principali critiche mosse alle giustificazioni economiche delle tariffe imposte da Trump?
Le principali critiche riguardano la scarsa base scientifica della documentazione a supporto delle tariffe, evidenziando una presunta mancanza di competenza in materia economica. In particolare, viene contestata l’idea che l’imposizione di dazi possa automaticamente favorire i produttori nazionali, trascurando la complessità delle catene di approvvigionamento globali e il fatto che i dazi sui beni intermedi possono aumentare i costi per i produttori americani. Inoltre, si sottolinea che gran parte del costo dei dazi rischia di ricadere sui consumatori statunitensi attraverso il pagamento di prezzi più alti o una riduzione della domanda, con conseguente perdita di benessere. Infine, viene messa in dubbio l’efficacia dei dazi nel ridurre significativamente il deficit pubblico, soprattutto in un contesto di volontà di riduzione delle imposte, più volte manifestata da Trump.
A che modello sembra ispirarsi Donald Trump? Quali sono le radici della sua politica economica?
Trump è un imprenditore che si è occupato principalmente di affari, sfruttando le opportunità di mercato con fortune alterne, piuttosto che come un innovatore o un rivoluzionario tecnologico. È, tra l’altro, un imprenditore spregiudicato che, in questa occasione, sembra aver perso di vista le potenziali conseguenze delle sue azioni economiche. Si ipotizza che le sue motivazioni possano essere legate alla volontà di mantenere la fedeltà di una parte specifica del suo elettorato (il movimento “Make America Great Again“) e di portare benefici a fasce di elettorato, prevalentemente bianco, delle aree marginali e impoverite dalla globalizzazione della produzione. Ma gli effetti saranno negativi anche per loro.
Ci può spiegare quali sono le implicazioni delle politiche di Trump?
Quando viene tassato un bene importato, il costo derivante dalla tassazione viene generalmente diviso tra i consumatori, che pagano prezzi più alti, e i produttori esteri, che vedono ridotti i loro margini di profitto. Tuttavia, la misura in cui i produttori possono assorbire il dazio nei loro margini è limitata, soprattutto quando le tariffe sono elevate (15-30% o anche di più). Nel caso delle politiche di Trump, si prevede che gran parte dei dazi verranno pagati dai consumatori americani, portando a un aumento dei prezzi o a una riduzione della domanda. Se poi i dazi venissero assorbiti interamente dagli esportatori, non ci sarebbe comunque alcun beneficio per i produttori locali americani.
Trump sembra intenzionato a ottenere la quadratura del cerchio perché dice di ridurre le imposte e di imporre i dazi. Con quali effetti sul deficit pubblico?
L’idea di Trump sembra essere quella di aumentare le entrate fiscali attraverso i dazi per poi poter ridurre le imposte, stimolando così l’economia e potenzialmente riducendo l’elevato deficit. Tuttavia, gli analisti più seri ritengono che l’aumento delle entrate derivante dai dazi difficilmente sarà sufficiente per avere un impatto significativo sul deficit pubblico, tanto meno per finanziare una consistente riduzione delle imposte. Storicamente, anche governi repubblicani che inizialmente avevano ridotto le imposte si sono trovati nella necessità di aumentarle successivamente a causa del persistere del deficit. Pertanto, la coerenza e la sostenibilità di questa strategia economica appaiono molto dubbie con relativa perdita di consenso già a partire dalle elezioni di medio termine del 2026. Trump sostiene di voler invertire il declino degli USA, ma sembra ignorare il fatto che il reddito pro capite degli Stati Uniti negli ultimi 4-5 anni è cresciuto poco meno di quello della Cina, che resta tuttavia un Paese relativamente povero, molto lontano dallo standard Usa e che per questo motivo dovrebbe crescere più rapidamente.
Quali potrebbero essere le conseguenze a medio e lungo termine delle politiche commerciali di Trump a livello internazionale?
Nel breve-medio termine, le politiche di Trump potrebbero spingere i Paesi fortemente esportatori verso gli Stati Uniti a cercare alternative commerciali attraverso accordi di integrazione tra di loro. Tuttavia, per gli imprenditori, è fondamentale avere chiarezza sulla durata di queste politiche prima di intraprendere costosi investimenti per riorganizzare le proprie strategie produttive e i flussi commerciali. Nel caso in cui queste politiche dovessero persistere, si assisterebbe a una riorganizzazione dei legami commerciali internazionali. Paesi come l’Italia, con un’industria leggera più flessibile, potrebbero essere in grado di riorientare le proprie esportazioni verso altri mercati o trasferire parte della produzione negli Usa, come ha dichiarato ad esempio Illy per il caffè. Tuttavia, per settori che richiedono ingenti investimenti fissi, come quello automobilistico, la decisione di spostare la produzione negli Stati Uniti dipenderebbe dalla percezione di quanto durature saranno queste misure protezionistiche.
Come viene valutata la competenza dell’amministrazione Trump in materia di economia commerciale, alla luce dell’analisi dei dazi e delle tariffe medie europee?
L’analisi delle giustificazioni fornite per l’imposizione dei dazi con il riferimento alle tariffe medie europee rivelano un’assenza di competenza e una strumentalizzazione dei dati. Ad esempio, nel calcolo delle tariffe reciproche, si considera la media delle aliquote nei vari settori senza tener conto del peso del flusso commerciale. Questo porta a una rappresentazione distorta dell’effettiva grande apertura commerciale dell’Europa, la cui tariffa media sul totale delle importazioni risulta essere molto bassa, nella misura del 2%. Allo stesso modo, l’approccio di cercare un equilibrio della bilancia commerciale Paese per Paese non tiene conto della complessità dei sistemi produttivi complessi, dove il deficit con alcuni Paesi e il surplus con altri sono parte integrante delle catene del valore. Non dimentichiamo poi che Trump ha indicato l’imposta europea sul valore aggiunto come l’equivalente di un dazio sulle esportazioni USA in UE, dimenticando che tutte le imprese, compresi i produttori europei, devono applicare l’IVA nei prezzi di vendita.
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