Cantare, una gioia
La casa romana sulla collina è luminosa, calda. Accogliente, Stefania si siede sotto un quadro con una lettera autografa di Verdi: racconta in piena libertà, accomodandosi ogni tanto i lunghi capelli biondi. Al contrario di tanti colleghi, hai debuttato tardi. Solo sette anni fa. È stata una scelta difficile, ma precisa. A diciannove anni, nell’86, avevo vinto il primo premio al concorso Mattia Battistini di Rieti interpretando la scena della pazzia dalla Lucia di Lammemoor . Avrei potuto subito lanciarmi in carriera, ma ho capito che sarebbe stato rischioso: avevo bisogno di essere costruita dentro per un lavoro come il nostro. Ho continuato a studiare, a Parigi per un anno, approfondendo il repertorio francese, e poi a Vienna. Finché mi sono sentita pronta, anche se in famiglia erano perplessi, allora. In casa, infatti, non c’erano musicisti. La passione mi era nata all’ascolto, da uno zio, del Quartetto dal Rigoletto: un colpo di fulmine. Mi sono innamorata pazzamente dell’opera. Mia madre faceva: Mah, studiare canto!, perché desiderava per me una vita borghese, una professione, dei bambini… Poi, c’era l’idea delle cantanti liriche, grasse, goffe. Comunque, mi fecero studiare con un’anziana cantante, Lina Imaro Bertardi, a Sirmione, vicino a Verona, la mia città. Ma la vita a volte è strana: incontri delle persone che poi viaggiano con te, ti accompagnano nel tuo percorso, come degli angeli, e il motivo lo capisci solo più tardi. Per me si è trattato di Franca Valeri (l’attrice, ndr), una seconda mamma. Perché mia madre mi ha dato la vita, lei mi ha scoperto, mi ha insegnato tutto del palcoscenico, ma anche come vivere la vita. In un lavoro, come il tuo, non facile, che esige tanto equilibrio. Il nostro è un lavoro soprattutto spirituale, nel senso che devi essere molto convinta di quello che fai, hai bisogno di un equilibrio interiore: diversamente, non riusciresti a trasmettere nulla agli altri. Tutti dicono: che bello, canti! Ma è un mestiere in cui serve una grande forza di carattere, saper stare a contatto con la solitudine, con lo stress davanti al pubblico per dare sempre il meglio di te. Non basta la voce, occorre la musicalità, lo studio, il saper vivere con gli altri. Io, questo equilibrio lo trovo in me stessa, cercando di essere molto onesta, nel senso religioso che possiedo, nell’essere stata educata a lavorare al massimo, con un rigore morale che mi viene da una famiglia molto unita. Torniamo al ’97, anno in cui è partita la carriera. Dopo un Rigoletto a Cagliari, un grosso colpo di fortuna a Vienna. Il giorno dopo un’audizione per i Puritani al Teatro dell’Opera, mi chiama il direttore artistico e mi fa: Ma lei la conosce tutta quest’opera? Sì, l’ho cantata in un piccolo teatro a Digione, in Francia. Se la sentirebbe di cantarla nel nostro ‘piccolo’ teatro?. Io pensavo: sarà fra qualche anno, e invece lui intendeva che sostituissi la sera seguente la grande Editha Gruberova che aveva annullato la recita. Accettai, dopo dieci minuti ero alla prova di regia. Cantai. Da allora sono ospite fissa del teatro viennese: credo di aver interpretato una dozzina di ruoli, diretta anche da Ozawa e Muti. A proposito, stimo molto Seiji Ozawa, perché giapponese – un popolo che amo e frequento – di una gentilezza squisita, che ti chiede come ti senti, se sei a tuo agio, uno che ama lavorare in simbiosi con i cantanti. Altri invece ti dicono io faccio questo tempo e tu mi segui, per cui è difficile avere un rapporto umano. Io invece ho la necessità di sentire l’amicizia con le persone con cui si lavora, perché noi insieme costruiamo un qualcosa estremamente spirituale: veramente si tocca l’anima. L’opera è infatti il frutto di una comunione di spiriti. Per questo ti devi sentire sostenuta dal direttore nei momenti in cui hai bisogno, di un respiro in più ad esempio. Stessa cosa con i colleghi. Con alcuni di loro, come Marcelo Alvárez e Diego Flòrez, mi trovo benissimo non solo in scena, ma siamo amici nella vita: questo fa anche capire quanto siano cambiati i cantanti d’opera. Sono stata fortunata pure con i registi. Oltre ad aver fatto teatro tedesco d’avanguardia, mi sono divertita molto con Dario Fo, che a Pesaro nel 2001 per la Gazzetta mi ha fatto ballare il tango. C’è stato poi l’incontro con Zeffirelli. La Traviata con lui a Busseto e al Bolscioi di Mosca è la cosa più bella che ho fatto. Oltre ai Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc alla Scala con Muti. Il testo di Bernanos lo amo molto, è un libro base, tutti lo dovrebbero leggere. Io sono una che soffre tanto per la separazione da chi si ama, la morte è la cosa che sempre mi ha fatto più paura, la mia e quella degli altri, oltre alla delusione per un’amicizia non sincera. Anche perché io sono molto prudente nel dare la fiducia, ma poi mi dono tutta, e sono fedelissima. Ho cominciato a capire qualcosa del mistero che è la morte appunto leggendo i Dialoghi. Mi attirava il personaggio di suor Constance. Lei mi assomiglia molto per questa gioia che ha nel fare le piccole cose, nel servire Dio, perché Dio ti dà la gioia. Io l’ho voluta interpretare, anche se vocalmente non è difficile né interessante, con una decisione molto personale, non da cantante. Avendo avuto un grave lutto, il personaggio mi ha aiutato a guarire in certo modo la mia ferita, perché il canto serve anche a guarire sé stessi e gli altri. Infatti, il mio è uno strumento interno, una parte del mio corpo che suona e attraverso una cosa che tu hai dentro, riesci a far godere gli altri… Certo, il giorno che mi sparirà la voce, non so come farò, magari scriverò dei racconti. Comunque, resto con un carattere gioioso, che credo mi venga dai genitori. Non mi abbatto, cerco sempre di vedere il positivo, di guardare in avanti. Tu sei una giovane artista lirica. Ma serve ancora questo genere d’arte? Certamente. Ci sarà finché servirà il teatro, perciò sempre, perché il teatro è l’altra dimensione dell’uomo, che ha bisogno dell’introspezione, di vedere rappresentato ciò che è e ciò che vorrebbe essere. L’opera come anche il cinema durerà, anche perché la musica è la via più breve per arrivare all’anima. Ti fa capire che esiste un’altra dimensione, diversa da quello che si brucia nell’istante. E aiuta anche a dimenticare le brutture della vita, perché il teatro è un luogo protetto, uno scrigno dove si può dimenticare quello che c’è fuori per ricordarsi quello che c’è dentro. Stefania, quaranta opere in repertorio, un amore gioioso con Roberto (Madison, attore di teatro e cinema, ndr). Quali progetti nel tuo futuro di artista e di donna? Per prima cosa, restare fedele al mio timbro di voce, eseguendo le opere che le sono congeniali – in particolare Bellini e Donizetti – senza strafare o bruciarmi in ruoli non adatti: è per me una questione di onestà. Perciò, in cantiere, fra il resto, ho a novembre Traviata a Monaco con Maazel e nel 2007 Falstaff a Firenze. Come donna, visto che mi piace molto la vita in tutte le sue sfaccettature, oltre a un po’ di riposo, magari mettere al mondo dei bambini. Per ora ne ho adottati due in Africa… E poi continuare a lavorare con molta dedizione, perché il canto è un atto di gioia, e per me la più grande testimonianza dell’esistenza di Dio. Mi dico sempre: ma perché è toccato a me questo dono, avrebbe potuto averlo un’altra persona. Ho avuto tanto dalla vita: la voce, la passione per la musica, il lavoro che amo. Mi sento a volte come avessi avuto un miracolo, certo una persona amata da Dio in modo particolare.