Cantando passerà
Risanare le ferite lasciate dalla pandemia sembrava un obiettivo irraggiungibile fino a poco tempo fa, eppure lo spirito di adattamento e di sopravvivenza delle più disparate attività commerciali italiane sembra stia tenendo a galla una massa informe di lavoratori.
Se però, per alcuni, la vita sta tornando lentamente alla normalità, un settore in particolare non riesce proprio ad uscire dalla fossa in cui è scivolato: la musica dal vivo.
Il grande dramma dell’artista, abituato a risultare spesso invisibile agli occhi dello Stato, si tinge ancora più di toni scuri.
Innanzitutto, bisogna sottolineare il fatto che molti club specializzati in musica dal vivo stanno avendo un’estrema difficoltà a far ripartire le attività. Alcuni non hanno mai riaperto. È il caso eclatante dell’Ohibò di Milano, tanto per fare un esempio, un piccolo tempio della musica suonata con una lunga storia alle spalle.
È una guerra combattuta su più fronti. In questo clima di smarrimento totale, club e artisti lottano per gli stessi obiettivi ma fanno parte di eserciti diversi. Ripartire è importante per tutti, ma il meccanismo è complesso.
Il locale ha dei costi che devono essere ammortizzati, gli organizzatori sono costretti ad abbassare i cachet delle band per poter almeno pareggiare i conti. E i musicisti? Esordienti e indipendenti rimangono in attesa, alla base della piramide. Tra i “big” c’è invece chi sta provando a riorganizzarsi, tra capienze dei locali dimezzate e grandi arene con posti a sedere. Giovedì scorso, all’Auditorium di Roma, Max Gazzè si è esibito di fronte a mille persone, sedute, distanziate, provviste di mascherina. E sul palco, una nutrita rappresentanza della manovalanza che c’è dietro il mondo della musica dal vivo ha potuto dar voce a un’intera categoria. «È stato importante far sentire la loro voce − dichiara Gazzè –. Senza polemiche. Spero che questo appello giunga alle orecchie giuste. Ho preteso che nessuna delle persone che lavora con me fosse lasciata a casa». Una scelta coraggiosa di cui il mondo della musica ha estremamente bisogno.
E il pubblico, in tutto questo, spera. I grandi tour, così come i festival estivi, sono stati annullati o rinviati al prossimo anno. I biglietti venduti sono stati all’inizio tramutati in voucher, buoni utilizzabili per lo stesso concerto a un anno di distanza. La questione ha sollevato un polverone, il pubblico si è sentito tradito, truffato. Caso eclatante è stato quello dei concerti di Paul McCartney previsti per lo scorso giugno a Lucca e Napoli: live rinviato, nessun tipo di rimborso e il voucher come unica soluzione. Persino il musicista inglese si è schierato apertamente con il pubblico pagante: «Facciamo la cosa giusta, senza fan non ci sarebbe musica dal vivo».
E, almeno sulla carta, l’appello sembra essere andato a buon fine. Nella giornata di mercoledì 8 luglio, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha dato vita ad un vero e proprio “emendamento McCartney” all’interno del famoso Decreto Rilancio, secondo cui il promoter «provvede, comunque, al rimborso con restituzione della somma versata ai soggetti acquirenti alla scadenza del periodo di validità del voucher quando la prestazione dell’artista originariamente programmata venga annullata, senza rinvio ad altra data compresa nel medesimo periodo di validità del voucher (18 mesi, ndr). In caso di cancellazione definitiva del concerto, l’organizzatore provvede immediatamente al rimborso con restituzione della somma versata».
Non ci resta che attendere. D’altronde, è la cosa che abbiamo imparato a fare meglio in questi ultimi mesi.