Cannoni parcheggiati

Spirano di nuovo venti di missili e armi chimiche in Medio Oriente. L'istruttiva visita al mueso della guerra di Saigon-Ho Chi Minh Ville
Museo della guerra di Saigon

Quanto odio ci vuole per uccidere un uomo? Quanta rabbia, rancore, negatività, magari avidità e stoltezza per togliere la vita a un essere simile a te, a me? E quanta ce ne vuole per uccidere un bambino di 9 anni, tagliare a pezzi il fratellino di 8 e sparare alla sorellina (solo ferita e creduta morta, che poi testimonierà al processo contro i carnefici)?

È quello che mi sono chiesto vedendo le foto dei massacri da parte dei marines americani durante la guerra in Vietnam. Erano 18 anni che mancavo da questo Paese e che non vedevo uno dei musei della guerra che si trovano un pò dappertutto qui: 18 lunghi anni che mancavo da un Paese splendido che mai è “andato via” dal mio cuore. Come dice un filosofo orientale: «Si possiede davvero e per sempre nel più intimo spazio interno di noi stessi, ciò che si riesce a donare ed offrire per amore».

Li chiamo i musei dell’orrore, dell’odio, «della parte peggiore dell’uomo», come direbbe Igino Giordani. La parte peggiore, anche quella più oscura, di cui tutti noi dovremmo vergognarci. L’uomo: quest’essere meraviglioso capace delle cose più grandi e belle che possiamo immaginare; ma anche capace di ospitare nel suo intimo il male. Una realtà che papa Francesco ha più volte richiamato dalla sua elezione.

Osservo le foto, gigantesce, sui muri di quest’edificio adibito a museo: bello, moderno, grande, e ad un certo punto le gambe hanno iniziato a tremarmi. 18 anni fa non c’era o ero rimasto già a quel tempo così scioccato che me ne sono andato via senza entrarvi… Passo oltre l’esposizione di queste atrocità: villaggi incendiati, immagini di torture e prego di non iniziare a piangere: sarebbe imbarazzante. Quelle foto di bimbi e mamme uccisi, quel bimbo fatto a pezzi da una bomba e tenuto in mano (come fosse una bambola rotta) da un soldato: giusto come un pupazzo di stoffa. Che orrore; e perché tutto questo? Me lo domando e non trovo risposta: non c’è risposta.

A cosa sono serviti 2 milioni di civili uccisi e un altro milione di soldati vietnamiti sterminati? Perché qualcuno è riuscito a rovesciare su quest’esile nazione 1,7 volte la quantità di bombe di tutta la Seconda guerra mondiale? Perché più di 200 mila soldati americani uccisi, feriti e mancanti all’appello?  Perché tutto questo? Qual è il motivo? Chi ha il diritto di sopprimere la vita di un essere umano in nome di chi o peggio ancora in nome di cosa? Della libertà? Quale libertà ha un prezzo così alto da giustificare tanta crudeltà? E cosa ha un prezzo pagato con milioni d’esseri umani?

Queste domande si fanno pesantemente sempre più forti dentro di me e non trovo la risposta. M’accorgo che anch’io, nel mio piccolo, sono o posso essere capace di tutto questo e mi spavento terribilmente. Dice un monaco buddhista nostro amico: «Il giorno in cui  saprò chi sono davvero io, scapperò da me stesso per la paura». Inizio ad avere paura di me, una paura terribile. Tutto quanto vedo fotografato su queste pareti, queste armi esposte, i pezzi di bombe… Tutto m’appartiene: ne sono o ne sarei partecipe se ogni giorno non decidessi di riscegliere il bene? Sarei anch’io abitato dall’avidità fino a questo punto? Penso di sì. Ed ho paura.

Davvero ora le lacrime iniziano a scendere sul mio volto e cerco di stare attento che nessuno mi veda: sarebbe imbarazzante vedere un uomo, un "piccolo" uomo come me, piangere a 52 anni di fronte a delle foto del genere. Osservo gli altri stranieri che affollano il museo. Tutti zitti: un silenzio direi sacro. Non ci sono parole… Penso che ci sentiamo tutti in quelle foto.

Cosa dice papa Francesco? Ci sono cose ben più importanti al giorno d’oggi di un uomo che muore di freddo in via Ottaviano. Ormai riusciamo a "commuoverci" e perdiamo la pace se i mercati finanziari vanno giù di qualche punto… Quelli sì sono più importanti!

Crollo definitivamente nell’ultima stanza del museo, quando vedo delle gigantografie con le immagini di bambini nati con malformazioni indicibili, mostruose, a causa dell’agente orange, il defogliante che le truppe alleate hanno utilzzato per distruggere le foreste secolari di mangrovie e poter così colpire i soldati che s’infiltravano dal nord, dalla Cambogia, favoriti dalla vegetazione, utilizzando anche canali sotterranei: si parla di 40 milioni di litri versati sul Paese, un quantità incredibilmente grande. Nascono bimbi deformi ancora oggi e sono tanti: chi piange per loro? Rimango attonito dalla faccia radiosa di una mamma, ritratta in una foto grande forse 2×3 metri, che abbraccia suo figlio: gambe piccole e deformi, come anche le braccia e la testa. I due suoi occhi guardano chissà dove… L’amore di una madre può coprire quest’orrore di cui noi tutti siamo responsabili? L’amore. Sono sconvolto e chi mi accompagna continua a dirmi: «Non piangere sù». Cosa siamo stati capaci di fare, tutti noi?

Mi viene in mente la domanda pronunciata dall’attore principale del film di guerra La sottile linea rossa, quando guarda le vittime giapponesi a terra: «Da dove viene tutto questo male che c’è in noi?».

Passiamo al giardino e guardo gli aerei, i cannoni e gli elicotteri parcheggiati: che grande investimento per la morte! Le cifre sono davvero alte e per me, dopo qualche foto per far contento l’accompagnatore, è più che sufficiente.

In motocicletta, seduto dietro, iniziamo a percorrere la città di Ho Chi Minh city; la vecchia Saigon. La gente fuori è tanta, indaffarata e davvero serena. Non un incidente nonostante la quantità di moto. A un certo punto ci fermiamo a comprare un sacchetto di more buonissime: 2 dollari e mezzo. La ragazzina, gentile, è felice: se non le vende in fretta andranno tutte a male. Ha due occhi neri, profondi come questo popolo e sorride. Tutti qui sorridono.

L’aereo sale e si allontana veloce e guardo la città allontanarsi: piano piano tutto diventa più piccolo. Penso che forse non ritornerò facilmente qui. Lo scopo del mio viaggio è compiuto e nella vita veramente bisogna donare, staccarsi per una dimensione sempre più grande. Quando sei di fronte all’infinito, tutto quanto sei ed hai è sempre piccolo. La cosa intelligente è aprirsi a quella dimensione più grande che "sta di fronte". Posso contenere, o farmi contenere da lei. È qui, penso, la felicità.

Guardando il tramonto, scopro che tutto si colora di rosa: le ali dell’aereo, le nubi sotto che sembrano "incendiarsi di luce", la terra, i fiumi che vedo. Ora è tutto ricoperto di rosa. Mi fa sentire una presenza femminile. Alla mente riaffiorano le parole di un amico di Latina, dettemi tanti anni fa: «Ricordati che nella vita vince chi ama». Dopo tutto quest’odio che ho visto, morti e distruzioni, tutto ora è ricominciato e la vita va avanti. Ha vinto quella mamma che abbraccia suo figlio deforme, ha vinto quel contadino che non ha ammazzato il pilota abbattuto, ha vinto il capitano che si è rifiutato di scaricare la bombe ed è finito in galera. Ha vinto ognuno che ha amato e che ama anche in questo momento.

Si apre la porta dell’aereo: sono arrivato a destinazione. È tempo di riprendere la corsa. È tempo di continuare ad amare.

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