A Cannes sono 70, e si vede
Settant’anni ha il festival di Cannes e li dimostra. Se non altro perché, oltre i lustrini e le sfilate sul red carpet di star come Nikole Kidman – quattro volte -, divi e divetti, la qualità dei film presentati non è stata eccelsa: anzi, per diversi osservatori piuttosto deludente. Nonostante la Francia al solito faccia la primadonna, dato il suo complesso di superiorità, la giuria – quasi tutta femminile, presieduta da Pedro Almodòvar – ha concesso la Palma d’oro allo svedese The Square di Ruben Ostlund – satira sul mondo dell’arte -, premiando poi come migliori attori Diane Kruger per In the fade del tedesco Fatih Akin (storia familiare di vendetta) e Joaquin Poenix in You Were Never Really Here di Lynne Ramsay. La superstar Kidman ha ottenuto il Premio speciale per i 70 anni del festival, confezionato apposta per lei che non è nemmeno venuta a ritirarlo: nonchalance o scortesia?Ma, si sa, i divi e le dive sono capricciosi…
Il Gran premio della Giuria se l’è preso, meritatamente a quanto pare, 120 battiti al minuto del francese Robin Campillo, dedicato agli attivisti degli anni Novanta nella lotta contro l’Aids, mentre Sophia Coppola – anch’essa assente – ha ottenuto il premio alla regia del non esaltante The Beguiled; più meritato è stato il riconoscimento a Loveless di Andrey Zvjagincev sul disfacimento della società russa contemporanea.
E l’Italia? Esclusa dal concorso, si è dovuta consolare del premio, giustissimo, alla nostra Jasmine Trinca in Fortunata di Castellitto, film ora osannato ma in realtà discutibile, nonostante lei sia bravissima.
Premi a parte, frutti ormai in molti festival più di combinazioni “politiche” che di meriti artistici, il festival sulla Croisette ha avuto la solita folla di star ricercate in modo ossessivo, quasi a voler nascondere film di autori anche prestigiosi come la Coppola, Ozon, Haneke; ma in crisi di ispirazione, storie ormai stancanti di sesso e di sangue, spinte all’estremo in nome del cinema-verità. In verità Cannes ha offerto ben poco di originale o che non fosse più o meno scontato. Si avverte la stanchezza, che è morale soprattutto, perché il cinema (e molti autori) esprimono l’anima senza speranza dell’Occidente. È augurabile una pausa. E azzardo a suggerire: perché per un anno non facciamo più festival di cinema, così da riflettere un poco? Lo so, è una utopia. Ma forse vale la pena accarezzarla, se non altro come stimolo.