Candidati e patti in vista del voto

Stipulati accordi e impegni per aree di interesse su singole tematiche. Ma c’è il rischio di non offrire una visione globale dell’agire politico.

Tra pioggia e gelo termina una campagna elettorale che molti hanno giudicato anomala per una mancata mobilitazione diffusa tra la cittadinanza, per lo più distratta o rassegnata ad un Parlamento disegnato da una legge elettorale che sembra non garantire una maggioranza predefinita. Salvo la sorpresa di risultati tali da sconvolgere ogni previsione, si prospettano accordi successivi tra partiti che, anche se si siano stretti in coalizione, non hanno  progetti e idee comuni.

Molti dei messaggi viaggiano sui social media e sulle tv, con tutti i rischi della cyberpolitica. Gli articoli sul web rischiano di essere cliccati ma non letti fino in fondo. I giovani, dicono, che “non toccano carta” e chiudono le edicole che non siano diventate un bazar.

Pochi elettori hanno sentito un discorso dall’inizio alla fine o ascoltato un dibattito vero, con domande e risposte circostanziate, che non sia uno spot sbrigativo dove conta molto l’espressione del volto o l’abbigliamento. E d’altra parte resta sempre valida l’ultima ammonizione di Tullio De Mauro sugli effetti a lungo termine su una società dove «il 71 per cento della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà».

Si comprende, in tale contesto, la difficoltà del mondo associativo a chiedere patti di lealtà in vista del voto, a meno che non si tratti di accordi interni ad aree culturali affini o talmente generici da poter essere firmati da tutti. Ovviamente non parliamo di accordi molto più vincolanti che sanno stringere, implicitamente e in maniera riservata, lobby di peso come ad esempio le massomafie oggetto dell’ultimo rapporto della commissione interparlamentare antimafia. Bisogna poi essere consapevoli che un patto non può dare l’illusione di determinare in profondità l’agire del parlamentare. Lo ha  dimostrato la dubbia incidenza del  famoso “patto Gentiloni”, siglato nel 1913 dal conte Vincenzo Ottorino, avo dell’attuale presidente del Consiglio, per sostenere i deputati liberali disposti a farsi carico delle istanze clericomoderate dei cattolici del tempo in chiave antisocialista. La nascita del partito popolare rappresentò invece, nel 1919, una rappresentanza organica non schiacciata su singoli tesi parziali. Nel frattempo si era consumata la tragedia della Grande guerra senza una e vera e propria opposizione efficace.

In vista delle elezioni del 4 marzo, sulla rivista Città Nuova abbiamo messo in fila, a titolo di esempio, una serie di opzioni che, nell’insieme, offrono un profilo di un candidato coerente con una visione politica che metta al centro la persona umana. Dalla tutela dell’ambiente alle politiche sociali, dal contrasto alle mafie al ripudio della mercificazione della vita, dalle scelte che non umiliano le famiglie a quelle che combattono il sistema della guerra. Opzioni abbinate a diverse campagne nazionali. Difficile, molto difficile trovare persone disposte ad impegnarsi a 360 gradi in maniera non velleitaria, per lo più dentro formazioni politiche che tendono, come afferma padre Francesco Ochetta su Civiltà Cattolica, a diventare dei comitati elettorali.

Il più delle volte è facile individuare quei candidati disposti ad esprimere l’impegno per un tema come l’accoglienza degli immigrati ma non quello sulla famiglia, e viceversa. In ambito cattolico tale cesura comporta il permanere di quella divisione che si è determinata «tra quelli della vita e quelli del sociale»: un “controsenso” come lo chiama il presidente della Cei, cardinal Bassetti, che deve fare i conti con  quanto è stato seminato in questi decenni. Ma più in generale non ci si può fermare a formule del tipo “ti voto solo se” limitandosi a singole questioni. Ad esempio chiedere l’impegno all’adesione dell’Italia al trattato di abolizione delle armi nucleari e non pretendere una  posizione sulle bombe inviate dal nostro Paese per la guerra in Yemen.

Una certa allergia a prendere posizione esplicita da parte dei futuri parlamentari è dovuta anche a quella prudenza necessaria per chi deve garantire una certa fedeltà al vero patto vincolante stretto con la coalizione o il partito che lo ha collocato in un collegio cosiddetto sicuro in un equilibrio di poteri che è noto solo tra le parti. Tale strategia si chiama storicamente “entrismo” e cioè la tecnica di alcune minoranze di mimetizzarsi in formazioni più complesse per entrare comunque nel “palazzo” dove giocarsi la partita.

Alla fine, in questo sistema elettorale, il singolo elettore consapevole, non quello che vota a comando o per paura, è posto davanti ad una scelta difficile tra ciò che più sembra avvicinarsi alla sua idea di persona e società stando bene attento a quei meccanismi di selezione indiretta presenti nel rosatellum ed esposti, con grande finezza di analisi da Iole Mucciconi, su cittanuova.it.

Pur restando dentro tale contraddizioni, ci sono state a macchia di leopardo sul territorio italiano, spazi di vero confronto democratico come quello esercitato anche dal Mppu secondo il patto eletto elettori esposto da Silvio Minnetti sempre su cittanuova.it. Citando una esperienza per tutte, la scuola di partecipazione di Carpi, a Modena, ha proposto ai candidati un confronto aperto sui temi esposti nel patto. Segni di una ricerca di senso di una  politica autentica che non si arrende.

 

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