Canaletto. Luci sulla città
Un perfezionista. Sotto il disegno infallibile, l’occhio fotografico coglie ventate di luce sulle figurine, le architetture, le acque. Mai una sbavatura, in un cielo quasi sempre terso, dove anche le ombre giocano col colore denso, pieno. Un pittore così è destinato al sicuro successo, fin dalla gioventù. Mercanti, collezionisti, amatori si contendono le sue tele serene, senza problemi, così belle da vedersi. Se lo contendono, a Venezia come a Londra, in quei primi decenni del Settecento dove si prediligono le persone – e gli artisti – creatori di un mondo perfetto, di una città magica, simbolo di una vita altrove inimmaginabile. Ma Antonio de Canal dèto Canaleto – come lui si firma – è solo un vedutista straordinario, un fotografo dal gusto speciale, un astuto produttore alla moda: non sarà, per caso, un poeta? È la sorpresa della rassegna romana fra i damaschi di Palazzo Giustiniani, dove il veneziano ritira, diremmo, l’aspetto suo perfezionistico – che rischia una rigida ripetitività – e mostra una sensibilità per la luce, un affetto per le atmosfere, un sentimento di amore alla vita e alla natura che realmente incanta. A Venezia, L’Isola di San Michele. È un piccolo disegno a penna e inchiostro bruno. Una sola casa, la città in lontananza, avvolta nell’ombra, alcune imbarcazioni: un segno, volutamente tremolante, a descrivere i contorni e a rendere l’idea del circolare dell’aria e della luce. Quanta verità. E che senso di spazi infiniti, raccolti tuttavia da quel colore bruno e grigio evocatore di un paese reale, ma pure simbolico. Ancora a Venezia, Il Bacino di San Marco dalla Piazzetta. Qui c’è l’estate di una città affollata, rumorosa di parole e di fruscii, ben impaginata tra la Libreria sansoviniana, la chiesa della Salute e, sul fondale, una teoria di navi ed edifici, che paiono svanire in lontananza. Uno squarcio di vita reale, un ricordo di gran pregio per i turisti. Ma quel cielo bianco-azzurro che si leva sopra la città e la fascia di una luminosità diffusa, che dà vita ad ogni singola persona, ad ogni singola pietra imbevendola di sè stesso, è qualcosa che ha a che fare con la grande poesia. Dice la Venezia di allora, come quella (a volte) di oggi. Canaletto tuttavia non descrive, crea un mondo dove tutto è magico, reale e irreale, perché è il suo sentimento dell’infinito a renderlo in questo modo, grazie alla trasparenza del colore che fa tutto aereo, leggero. Così che è il cielo, si potrebbe dire, il vero protagonista delle vedute di Antonio. Anche nei rari interni come quello di San Marco. Perché il cielo è qui la sinfonia di cupole e archi dorati che immergono la folla in un’aria calda, che ricorda i larghi della musica del coetaneo Vivaldi. La cui arte trasparente e gioiosa si ritrova in certe limpidezze d’acqua che Canaletto indugia a descrivere onda per onda, tra infiniti brillii, come nel celebre Molo del Bacino di San Marco. Qui, tra la quinta dei palazzi e le barche dei marinai, il pittore apre una veduta sullo specchio d’acqua. Come sotto un cielo rovesciato, la città intera vi si riflette a contemplarsi: è il miracolo di un mondo sospeso, un incantesimo sempre rinnovato. Nessun timore, in Canaletto, che questo prodigio possa incrinarsi o terminare. Le malinconie del Guardi – con la sua Venezia chiaroscurata e nebulosa – sono ancora lontane. Lui, si mantiene ancorato ad una cristallina serenità. Ed anche quando, a settantuno anni, nel 1768, esce di scena, ha mantenuto intatta la sua visione. La vena gli si è fatta più intima, le tele sono di formato minore, ma l’amore per gli spazi sconfinati e i cieli luminosi sono rimasti. Come succede ai grandi artisti, lavorati dal tempo, è rimasto poeta sino alla fine.