Camus e la topo-demia

Il timore di una nuova ondata del coronavirus mostra come la pan-demia sia insieme globale e locale. La compassione, frutto dell’immedesimazione, può accorciare le distanze. L’insegnamento de “La peste” del Premio Nobel per la letteratura

Il bollettino delle 18 della Protezione civile sulla diffusione in Italia del Covid-19 ci interessa molto più dei conteggi fatti dalla John Hopkins University o dalla Afp, che riguardano invece i dati a livello mondiale. Le poche centinaia di contagiati della Lombardia ci preoccupano molto di più delle decine di migliaia registrati ogni giorno nelle Americhe. Il fatto è che questa pan-demia (tecnicamente un “rifacimento” della parola epidemia, in greco pan=tutto e demos=popolo) è anche contemporaneamente una topo-demia (topos=luogo), in una duplice valenza che sembra avere la forza dell’evidenza: siamo tutti sulla stessa barca, è vero, ma quel che succede a poppa (se io sono a poppa) o a prua (se invece mi trovo a prua) è molto più importante per me di tutto quello che accade nel resto del natante. Perché, ovviamente, la paura che mi tocca da vicino è molto più sentita di una generica paura di quel che accade lontano da me.

È lo stesso fenomeno che porta a disinteressarsi o a farlo in modo poco partecipato, alle sorti della pur vicina Siria o del non lontano Yemen, dove si continua a morire ormai da anni e anni. La sofferenza vicina è certamente più importante, per la psiche umana, di quella lontana, nonostante aerei e media abbiano ristretto il pianeta, lo abbiano reso un villaggio globale. «Il sangue che tocco non è il sangue che vedo», diceva Susan Sontag. Restiamo sempre e comunque un villaggio locale, mentre il globo viaggia per conto suo. Anche se vogliamo sentirci solidali coi nostri simili (e talvolta lo siamo sul serio). Se per caso, però, abbiamo degli amici o dei parenti mettiamo in Brasile, ecco che per simpatia, empatia o compassione aumentiamo di molto la nostra partecipazione all’altrui sofferenza. E se abbiamo visitato quei luoghi, la dose di condivisione del dolore aumenta in modo esponenziale.

Proprio sulla compassione, un grande del pensiero e della letteratura è stato ed è Albert Camus, il cui libro più celebre, La peste, è stato ripreso innumerevoli volte soprattutto all’inizio della pandemia, quando ci siamo ritrovati d’improvviso con una disponibilità che pareva illimitata di tempo. Poi è tornato nel dimenticatoio. Mi sono ricordato del suo capolavoro immaginando il (peraltro orrido) neologismo del titolo, “topo-demia”, per quel termine “topo” − considerato stavolta in italiano e non in greco −, cioè “ratto”. Sono infatti mirabili le descrizioni di Camus sul morbo che colpì i topi della casbah di Algeri prima degli umani. Ratti quasi umanizzati, come se l’autore avesse voluto trasferire su quei roditori i sentimenti che noi proviamo, concentrando su di essi tutta la paura umana di fronte allo sconosciuto, al pericolo, alla malattia che sfugge all’osservazione. Rileggiamo qualche passaggio di La peste: «A partire dal 18 le fabbriche e i depositi vomitarono centinaia di carcasse di topi. In qualche caso, si fu obbligati a finire le bestie, la cui agonia si protraeva troppo a lungo. Ma, dai quartieri periferici fino al centro della città, dovunque il dottor Rieux passava, dovunque i nostri concittadini si riunivano, i topi aspettava in mucchio, nelle pattumiere, o in lunghe file, nei ruscelli». E ancora: «Sin dal quarto giorno i topi cominciarono a uscire per morire in gruppo. Dagli angoli più riposti, dai sottosuoli, dalle cantine, dalle fogne, salivano in lunghe file titubanti per arrivare a vacillare alla luce, girare su se stessi e morire vicino agli umani». E infine: «Venivano a morire nelle sale degli uffici pubblici, nelle entrate delle scuole, talvolta persino alle terrazze dei caffè».

Le parole di Camus indicano così la paura dei “ratti umanizzati” di fronte alla tragedia improvvisa, sconosciuta, non classificabile, che ci mette dinanzi alla nostra caducità, alla nostra finitezza, quasi fossimo degli “umani-rattizzati”. Curiosamente ma non troppo, in noi umani dalla paura può nascere una duplice reazione: la chiusura ermetica, quella dello struzzo, o la compassione, quella dell’uomo ferito. Anche verso quegli esseri considerati immondi ma pur sempre viventi che sono i topi. Attribuire comportamenti socializzanti ai ratti morenti, come fa Camus, ci indica come nella nostra compassione giochi in primo luogo l’elemento sociale − «siamo tutti sulla stessa barca» −, e soprattutto l’immedesimazione, anche coi topi.

È forse proprio questa compassione che può farci guardare ai bollettini della Protezione civile come ai report della John Hopkins University con sentimenti attenti sia per gli uni che per gli altri.

 

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