Campioni europei di cricket. Gli immigrati ci fanno grandi

Non è certo uno sport tipico della nostra tradizione, ma la nazionale italiana, sia femminile che maschile, primeggia in Europa grazie ad atleti le cui famiglie provengono in gran parte dal sucontinente indiano
Nazionale italiana di cricket

Un ricordo personale. Nell’agosto del 1980 mi trovavo a Dublino a studiare inglese prima della mia partenza per Mumbai, India, dove – allora non lo avrei mai immaginato – sarei rimasto 28 anni. Una domenica, al Phoenix Park, mentre giocavo una partitella di football con amici arrivarono una ventina di sportivi attempati, in divisa bianca, maniche lunghe e pantaloni leggeri, ma lunghi anche loro, tradivano pancette più o meno prominenti e pelate piuttosto pronunciate. Cominciarono a giocare a qualcosa che non avevo mai visto, ma parevano estremamente coinvolti in tale sport. Al mio ritorno presso la famiglia dove abitavo chiesi informazioni su quello sport. La risposta fu tipicamente irlandese: «Giocavano a cricket: un gioco strano per inglesi molto originali!».

Non avrei mai pensato che nel giro di qualche mese sarei diventato un amante di quello strano sport, giocato da una manciata di nazioni del Commonwealth. Nel giro dei tre decenni, nel subcontinente mi sono spesso trovato a passare ore davanti a quei giocatori che, al pari del football in Brasile o anche nel nostro Bel Paese, riescono a tenere incollata una nazione agli schermi televisivi. Il cricket, una volta entrati nel suo spirito e nella sua dinamica, diventa terribilmente coinvolgente, ma resta anche oggi molto british.

Ebbene, non sono molti a sapere che l’Italia, sia maschile che femminile, è da poco campione d’Europa in carica. Due titoli, conquistati nell’estate scorsa, in Inghilterra quello maschile e a Bologna quello femminile, che non hanno fatto rumore e che pure sono anch’essi sintomatici di un mondo che cambia. Certo, perché i componenti delle nostre nazionali sono ragazzi e ragazze che fanno i fattorini, o i commessi, i badanti o i benzinai… Gente che viene, basta guardare i loro nomi, da India, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka. Vestono tutti una tuta azzurra con tanto di scritta Italia sul dorso. Cantano l’inno nazionale e parlano italiano con diversi accenti, tipici spesso del subcontinente indiano. Non hanno paura di pregare prima delle partite e appartengono a diverse tradizioni religiose. Accanto a loro, vero zoccolo duro delle due nazionali – perché il cricket ce l’hanno nel sangue e lo giocano da quando erano bambini per le strade polverose dei loro villaggi –, ci sono alcuni italiani di nascita che, forse, alla vista di quello sport avranno reagito, almeno la prima volta, come feci io al Phoenix Park di Dublino.

Si parla del mondo che cambia, i flussi migratori che sono inarrestabili, i gusti, i sapori, i vestiti, anche le religioni con i loro riti e i loro culti. Beh! Anche lo sport ci si è messo di mezzo e il cricket diventa ora simbolo di quella globalizzazione che ci passa sotto gli occhi tutti i giorni. È uscito anche un libro su questa nuova moda: Italian Cricket Club (Add Editore), di Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli. Si tratta di autori che sono andati alla ricerca del fenomeno cricket nel nostro Paese, immergendosi nell’immigrazione, che diventa ora il serbatoio di uno sport mai visto sui nostri prati di periferia, che potrebbe essere un collante sociale prezioso.

Significativa era stata la frase di Simone Gambino, presidente della Federazione italiana cricket, che già nel 2009, dopo la conquista del tiolo europeo da parte degli under 15, commentò: «Questa vittoria è per chi non vorrebbe che questi ragazzi fossero italiani: hanno dimostrato sul campo che gli immigrati sono una ricchezza». 

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