Cammini di umanizzazione

“Essere un cristiano generato dal Concilio Vaticano II”: è con questo desiderio che la voce rauca di Enzo Bianchi ha aperto la prima Cattedra di Sophia dell’anno accademico 2012-2013. Un’aspirazione che è stata centrale in tutta la vita del priore: proprio l'8 dicembre 1965, giorno che chiude il Concilio, la comunità di Bose vede la sua prima luce.
Le "Cattedre di Sophia": Enzo Bianchi

Lo scorso 29 novembre, con i polmoni ancora pieni di quell’aria, Enzo Bianchi si è concentrato su uno dei punti centrali dei “cammini di umanizzazione” (“…in cui dovremmo trovare una complicità tra cristiani e non cristiani, per non cadere nella barbarie”) che da una decina di anni caratterizzano la sua ricerca: il dono.

La figura dell’homo donator, l’uomo capace di donare, si sta facendo spazio nella ricerca filosofica, ma restano ancora delle domande aperte. Quale peso è dato al valore del dono nell’educazione? Quale ruolo può avere il dono in una società sempre più incentrata sul profitto, che sembra avere fatto del mercato il suo unico dogma?

Non è raro, e non è una novità, che l’idea di dono che più trova spazio nella civiltà contemporanea  finisca per banalizzarne la pratica (“…pensiamo alla vergognosa carità via sms: una specie di dono che tranquillizza la coscienza e allo stesso tempo mantiene lontano, assolutamente sconosciuto l’altro”) se non di tradirne profondamente l’essenza. Fino a pervertire il concetto stesso di dono, rendendolo uno strumento di interesse nascosto, di controllo dell’altro, di sottomissione.

Ma donare è un’arte, e l’uomo ne è capace. Ne è capace perché è capace di relazioni. E  la nostra società è lo specchio di come scegliamo di tessere questi rapporti: può essere una communitas, una comunità che mette insieme i propri doni, oppure il rifiuto di chi è a fianco a me, la chiusura, l’allontanamento dell’altro, una immunitas.

L’altro. Quello che per Sartre era “l’Inferno” può essere riscoperto anche lui come un dono, che riconosco e ritrovo nel dono di me stesso: donando me stesso nella presenza, nella parola, nel tempo offerto, nel silenzio che si fa ascolto quando la parola diventa superflua. L’uomo può donare non solo ciò che possiede, ma anche ciò che è; in questo atto valorizza e recupera la sua grandezza: la capacità di non calcolare il ritorno delle proprie azioni, di accettare il rischio per chi ha di fianco a sé, del fare tesoro dell’incertezza che è propria di ogni accoglienza e di ogni attesa, di ogni scoperta. E' in questo incontro con l’altro che sviluppo la mia identità, mi scopro utile, necessario e allo stesso tempo debitore, effetto di chi ho a fianco.

Il dono è gratuità, che è essenza del messaggio cristiano, centrato proprio in ciò che non è meritato: “la Grazia non è meritata; dire che l’amore di Dio va meritato è la più grande eresia”. La Grazia ci precede, ci perdona e ama mentre siamo peccatori. E non pretende qualcosa in cambio, ma soltanto che ognuno di noi si faccia riflesso e amplificatore di quell’amore ricevuto. Il dono è speranza, è speranza nell’Uomo vissuta.

E’ appassionante, a 50 anni dall’inizio del Concilio, scoprire e riscoprire i fiori che continuano a nascere da quel seme, la loro capacità di stupirci e coinvolgerci, di darci questa speranza. Sono anche questi, del resto, un dono.

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