Camminare insieme
Nella crisi delle relazioni tra cristiani ed ebrei, un simposio promosso dai Focolari ha inserito la cruda attualità in una prospettiva più ampia.
Camminare, verbo che si coniuga spesso a Gerusalemme. Si cammina nella Città vecchia, isola pedonale, e si cammina attorno alle mura. Si cammina a Mea Shearim, zona degli ebrei ultra-ortodossi, dove tutti piuttosto corrono. Si cammina anche davanti alla porta di Erode, zona araba. Tutti camminano a Gerusalemme: ebrei (laici e osservanti), arabi (musulmani e cristiani), bambini e adulti. E pellegrini. A guardar bene, però, ciascuno lo fa con i suoi, nella sua zona. È quasi impossibile scorgere ebrei assieme ad arabi, o gli uni nel quartiere degli altri. Capita, ma sono passaggi fugaci.
A questo costante movimento di micro e macrocosmi che si sfiorano, ma che restano chiusi nei loro ambiti, un gruppo internazionale di ebrei e cristiani ha proposto un’aggiunta al verbo camminare: “Camminare insieme”, l’offerta di una prospettiva più ampia ai problemi secolari fra le tre religioni monoteiste, ma anche a quelli più recenti che hanno spostato lì il baricentro della pace mondiale.
Si è dunque camminato insieme nella città, fermandosi in luoghi significativi; ma si è camminato anche con pensiero e spirito, ricordando il passato e guardando al futuro. Con la finalità di costruire ponti. Il momento pareva tutt’altro che favorevole: la guerra di Gaza aveva aperto ferite che solo più generazioni risaneranno; il negazionismo del vescovo Williamson aveva complicato i rapporti fra mondo ebraico e Vaticano, e la stessa visita di Benedetto XVI non era vista da tutti con ottimismo.
Like a bridge over troubled water – come un ponte sulle acque turbolente – cantavano Simon & Garfunkul. «Parole significative oggi», ricordava il rabbino David Rosen nel corso di una tavola rotonda che ha ripercorso gli ultimi cinquant’anni dei rapporti fra ebrei e cristiani. Dal giorno in cui Giovanni XXIII accolse una delegazione ebraica in Vaticano pronunciando parole che cancellavano due millenni di incomprensioni e odio: «Sono Giuseppe vostro fratello».
Era il preludio di passi che avrebbero fatto la storia, trovando il loro apice nel documento conciliare Nostra Aetate e nelle visite di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma e a Gerusalemme allorché, davanti al Muro del pianto, ha chiesto perdono a Dio per il male fatto nei secoli agli ebrei. Rosen, riferendosi all’apertura delle relazioni diplomatiche fra Vaticano e Stato d’Israele, nel quale si trovò implicato, ha detto: «Ho avuto l’impressione che dal cielo generazioni di antenati stessero a guardare sbigottiti e mi dicessero: “David, cosa stai facendo?”». Un’immagine efficace, che non vuole cancellare i problemi, ma che aiuta a proseguire con speranza per il coraggio che ha modificato la storia degli ultimi decenni.
Joseph Sievers, uno dei più noti studiosi cattolici d’ebraismo, ha ricordato i problemi e le difficoltà dei primi passi di un giovane adolescente tedesco avventuratosi nello studio dell’ebraismo, non lontano da quella Seconda guerra mondiale che, per il mondo ebraico, ha un solo nome: Shoah. Sievers ha vissuto gli stessi decenni di Rosen sulla sponda cristiana, che si apriva a prospettive inimmaginabili prima di Giovanni XXIII. Anche lui non ha potuto ignorare i momenti difficili e le incomprensioni: «È la rete di rapporti costruiti con decine di ebrei che dà speranza e fa guardare avanti».
Entrambi, dai rispettivi osservatori, non hanno potuto fare a meno di concordare come due millenni di accuse, scontri e violenze non possano essere cancellati in pochi decenni. I problemi ci sono e ci saranno; ma si è preso a camminare su una strada diversa. Soprattutto, ci si è incamminati insieme con coraggio e speranza, che aiutano a leggere la storia di questi ultimi cinquant’anni con obiettività.
Non sono mancati segni concreti di alto valore simbolico. “Insieme” si è sostato a lungo sulla scala dove Gesù, ebreo, avrebbe pregato per l’unità, e “insieme” si è pregato il salmo «il Signore è il mio pastore», cantato in ebraico e arabo. “Insieme” ci si è diretti al Muro del pianto, dove una preghiera comune ha fatto vibrare l’amore dell’unico Dio. Insieme si è saliti sulla collina del memoriale dell’Olocausto, Yad Vashem.
Sono vere le parole che il cardinal Martini ha rivolto, con un messaggio, ai convegnisti: «Quando si cammina “insieme” nello Spirito ci si accorge che i cammini non s’incrociano in maniera disordinata e imprevedibile, ma che in qualche modo tutti stanno andando verso una direzione comune. Camminare insieme significa che non abbiamo ancora raggiunto la meta ultima: c’è un mistero al di là di tutti i cammini a cui noi cerchiamo di avvicinarci».
Non potrò poi dimenticare le parole che un ebreo americano mi ha sussurrato davanti al Muro del pianto: «Siamo qui a riconciliarci anche per i nostri padri».