Cambio di guardia alla presidenza del Messico

Con l'elezione di Enrique Peña Nieto è tornato al potere il Partito rivoluzionario istituzionale. Proteste di parte dell'opposizione e degli studenti
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Marco, alla sua prima esperienza di scrutatore, osserva con grata sorpresa la lunga fila che serpeggia sin dai primi minuti davanti alla sede del seggio. La sua emozione si tramuta in orgoglio nel corso delle 10 ore di votazione. È l’altra faccia della politica, diversa da quella caratterizzata dai colpi bassi che suole vedere in tivù. «Questa gente ci crede alla democrazia, ama il suo Paese».
 
È il giorno dell’elezione del presidente messicano, dove ci sono in gioco anche i 500 seggi parlamentari, parte dei senatori e alcuni governi federali. Un grande appuntamento della giovane democrazia messicana, che ha preso forma negli ultimi venti anni grazie a un lento abbandono, non ancora completo, di pratiche clientelari, autoritarismo e corruzione, che hanno fatto della democrazia messicana una farsa orchestrata dal partito egemonico, il Partito rivoluzionario istituzionale, al potere per più di 70 anni. Il Pri, nei lunghi anni del dominio incontrastato, ha creato una struttura clientelare che gli ha assicurato una solida base di votanti fedelissimi. Tale situazione si è mantenuta in molti Stati federativi, dove il partito non ha perso potere ma, al riparo dai venti di rinnovamento democratico, ha mantenuto la supremazia.
 
Adesso il Pri è tornato a guidare il Paese con Enrique Peña Nieto (nella foto), 45 anni, virtuale trionfatore delle elezioni con il 38 per cento delle preferenze, contro il 32 per cento del candidato della sinistra, Andres Lopez Obrador, e il 25 per cento della candidata del Pan (Partito di alleanza nazionale), Josefina Vazquez Mota, secondo i conteggi preliminari, dopo l’unico turno elettorale del 1° luglio, che ha registrato un’affluenza degli elettori pari al 62 per cento.
 
L’egemonia del Pri si era interrotta nel 2000 quando il candidato del Pan, di centrodestra, aveva trionfato con Vicente Fox, raddoppiando nelle presidenziali del 2006 con Felipe Calderón. Ma se la prima presidenza di questo colore è trascorsa con relativa sicurezza, sull’onda euforica del cambiamento, quest’ultima è stata minata dai troppi morti nella lotta al narcotraffico (si calcolano più di 50 mila in sei anni), da una maggioranza  legislativa debole e dall’opposizione ostruzionistica dell’asse  Pri-Prd (Partito della rivoluzione democratica, di sinistra) che ha sistematicamente bloccato ogni iniziativa presidenziale. Tutto ciò, unito all’incapacità del Pan di rendersi credibile ai settori popolari e all’incapacità del Prd di armonizzare le belligeranti fazioni in un progetto omogeneo, ha favorito la ripresa del Pri.
 
L’ombra della vecchia politica accompagna questo nuovo presidente, che tuttavia assicura che «non ci sarà un ritorno al passato», che la sua sarà «una presidenza democratica, moderna, aperta alla critica, disposta ad ascoltare» e che porterà avanti le riforme necessarie. Fra queste la riforma energetica, le modifiche per rendere più efficaci le forze di polizia, con la creazione di una gendarmeria nazionale specializzata nella lotta alla delinquenza organizzata, il miglioramento del sistema educativo e alcuni provvedimenti per dare dinamismo all’economia e favorire le fasce più svantaggiate della popolazione.
 
Seconda nelle preferenze, la coalizione di sinistra, capeggiata dal Prd, ha ottenuto un risultato superiore alle aspettative: costituisce ora la prima forza di opposizione in Parlamento e ha conquistato la supremazia in due nuovi Stati. Inoltre ha trionfato nettamente nella capitale con più del 60 per cento delle preferenze. Da parte loro, Josefina Vazquez e il presidente Felipe Calderon, hanno riconosciuto il trionfo del Pri e hanno già convocato la dirigenza del partito per un serio esame dei risultati – che li vedono in coda – e l’inizio di un periodo di riforme interne. Ma Lopez Obrador non si rassegna e ha denunciato irregolarità in molti seggi. Si apre così una fase d’attesa che durerà fino al 7 settembre, data in cui si pronuncerà definitivamente il Tribunale elettorale per spianare la strada all’insediamento del nuovo presidente, previsto per il 15 settembre.
 
La buona notizia, oltre alla significativa affluenza alle urne degli elettori, è che Peña Nieto non avrà maggioranza assoluta nelle Camere e sarà obbligato a negoziare e a dialogare. Un buon esercizio per temprare la democrazia messicana.
 
Una nota di colore in queste l’hanno data i giovani. Un mese e mezzo prima delle elezioni, il neo eletto aveva partecipato a un dibattito all’università gesuita panamericana e un gruppo di studenti era intervenuto mettendo in dubbio le sue qualità democratiche e morali. Dopo il trambusto che aveva obbligato Peña Nieto a ritirarsi da una porta secondaria, il suo partito aveva attribuito la regia delle proteste ad agitatori infiltrati. Immediatamente, nelle reti sociali, si sono fatti avanti, uno dopo l’altro fino ad arrivare al numero di 132, i veri protagonisti della contestazione, mostrando i loro libretti universitari. Da lì è partito un appoggio ancora più sostenuto, chiamato “yo soy 132+1” ("io sono il 132esimo +1"), sfociato in manifestazioni contro Peña Nieto, ritenuto un candidato senza idee, antidemocratico, che ha goduto della preferenza delle poderose reti televisive. Si prevede che questo movimento possa durare ancora e aumentare la partecipazione giovanile.
 

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