Cambiare prospettiva, nel segno di Mazzolari

Dal senso del lavoro e della festa all’impegno per la pace e al ripudio della guerra. Perché è necessario riprendere il discorso dalle fondamenta. In dialogo con don Bruno Bignami, nuovo direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro per la Cei
Lavoro

La necessità di ribadire l’urgenza, niente affatto scontata, dell’accoglienza verso i migranti, del ripudio della guerra e della centralità della persona prima del profitto, mette in evidenza lo smarrimento e quasi la rimozione di un’evidenza antropologica data per acquisita. E questo avviene anche all’interno della comunità cristiana e tra coloro che si professano credenti. Cosa è avvenuto negli ultimi anni?

Per cercare di compiere una lettura in profondità del nostro tempo avremmo bisogno della profezia di Primo Mazzolari: il parroco di campagna e maestro di fede che davanti alla titubanza di molti della sua Chiesa, in presenza del fascismo, affermava «a forza di stare zitti, quando parleremo nessuno ci riconoscerà perché ci avranno dati già per morti».

Abbiamo perciò intervistato il presidente della Fondazione Mazzolari, don Bruno Bignami, che è stato nominato da settembre 2018 direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, con responsabilità anche sul Progetto Policoro. Bignami, già parroco nel cremonese e docente di teologia morale, ha da poco pubblicato un testo (“Misericordia a bracciate”) su Mazzolari dove ricostruisce l’esperienza originale di questo prete di periferia, scomparso nel 1959, attraverso una serie di lettere, finora inedite, inviate ad una molteplicità di interlocutori del suo tempo. Un tempo che può essere anche il nostro se sappiamo metterci in ascolto.

Perché Mazzolari ha molto da dirci oggi?
Il nocciolo del suo messaggio è quello di un cristianesimo incarnato dentro la storia e la sua complessità ed è significativo oggi che attraversiamo un cambiamento d’epoca con tante incertezze, una fase storica che ci chiede di abitarla e non si stare alla finestra a guardare.

Certe volte non sembra tuttavia in ambiti ecclesiali che si celebri il passato distogliendo lo sguardo dal presente, mentre prevalgono altri modelli di vita? Non aveva forse intuito la cosa il filosofo Pietro Prini che parlava di una specie di scisma in atto tra i cristiani?
Lo “scisma sommerso” a cui faceva riferimento Pietro Prini è la separazione tra l’adesione di facciata e la reale convinzione di coloro che si dicono credenti agli insegnamenti della Chiesa, ma scelgono in maniera individualistica secondo il tornaconto personale.

Eppure il legame con la radicalità di Mazzolari, del suo “tu non uccidere”, è molto forte, ad esempio, in chi oggi si impegna nel contrastare la logica della guerra che permette l’invio di bombe italiane nella guerra in Yemen…
Certo il tema della pace richiede oggi maggiore coraggio di fronte ai silenzi generalizzati degli ultimi anni nei confronti dell’aumento della produzione e vendita degli armamenti. È stata messa da parte tutta una importante riflessione che proveniva dal mondo cattolico e in particolare dall’insegnamento di Mazzolari. Si veda la maniera ideologica con cui viene sostenuta la questione della legittima difesa personale.

In che senso?
Ad esempio si tende a presentarla sempre come lecita, mentre nella tradizione cristiana ha dei limiti ben precisi, perché il valore della vita è superiore ad altri beni. Il dato evidenzia uno scadimento di riflessione etica e coincide con una visione individualistica, estranea a quella cristiana, dove la propria identità si riflette nelle cose di proprietà, tanto da arrivare a dire “io difendo in maniera assoluta ciò che mi appartiene”.

Cosa è successo in questi anni?
Possiamo dire che abbiamo perso molto tempo e non ci siamo accorti del necessario passaggio di testimone che ci arrivava dal secolo scorso. Esiste un affaticamento che ha finora impedito di aprire gli occhi sulla realtà. In questo senso assume un particolare valore quanto afferma Francesco e cioè che la realtà è superiore all’idea, mentre spesso una certa idea mistifica la realtà tanto da cambiarne i connotati.

Perché abbiamo avuto parlamentari di tradizione cattolico democratica silenti davanti a mozioni che chiedevano di fermare l’invio di bombe per la guerra in Yemen? È stata, forse, la presunta tecnocrazia assunta in politica al posto degli ideali a determinare tale stato di cose?
In genere emerge una incoerenza di fondo che sembra quasi inconsapevole. Bisogna, invece, capire gli interessi concreti in gioco. In un ragionamento libero da condizionamenti si arriverebbe ad altre conclusioni. Dobbiamo perciò chiederci: cosa è che sta spingendo fortemente per mantenere in piedi questo sistema? Nel caso delle bombe costruite in Italia per essere vendute  nei teatri di guerra, come lo Yemen, occorre chiarire che non possiamo chiamare lavoro ciò che provoca la morte. Non possiamo fare convegni sul lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale per poi accettare una situazione insostenibile. Non è lavoro. Evidentemente esistono dei passaggi necessari ancora da compiere, forse perché siamo ancora condizionati da modi ormai superati di ragionare che mettono in competizione il lavoro con la sua sostenibilità e la dignità della persona. La prospettiva va completamente ribaltata.

In che modo?
Dobbiamo dirci esplicitamente che questo modello di sviluppo è insostenibile perché produce danni e, prima o poi, anche disoccupazione. Dobbiamo ripartire dalla capacità di generare lavoro a servizio della vita. Superando anche il paradosso di esternalizzare da noi in Sardegna una attività che in Germania (sede della società che controlla la fabbrica italiana della Rwm, ndr) non è consentita.

Un giovane universitario umbro ne ha chiesto ragione pubblicamente alla Merkel, ma la Cancelliera ha detto che doveva documentarsi. Al di là dell’episodio, simile a quanto avviene con i politici nostrani, alla fine tutto ciò non appare l’accettazione di un certo relativismo etico? 
Diciamo che si manifesta il fatto di considerare la vita e l’esistenza di alcune persone a seconda dell’importanza che gli viene data, quando ad esempio si accetta che in certi luoghi si possa delocalizzare ciò che inquina nel nostro territorio. Accettiamo di restare indifferenti verso uomini e donne dei quali ignoriamo il volto. Ma in fondo io parlerei molto più semplicemente di opportunismo, della possibilità di portare a casa un profitto a scapito dei diritti e della dignità altrui. Sicuramente anche all’interno del mondo cattolico emerge la perdita della consapevolezza della storia da cui proveniamo. Non saprei dire se si tratta di relativismo o di una carenza etica di fondo. Forse le due cose vanno assieme ma il problema è reale.

Anche l’accettazione del lavoro domenicale nei centri commerciali da parte di molti credenti, nonostante i proclami della Cei, si può leggere come l’esito di tale cedimento strutturale? Basta fare un piccolo sondaggio tra i cattolici per scoprirsi parte di una minoranza derisa se si prova a voler mettere qualche paletto alla grande distribuzione. 
È evidente che si tratta di una partita persa a monte, sul fondamento e senso della domenica ridotta al precetto della messa e non all’interno del recupero della propria umanità, delle relazioni con la famiglia, gli altri, Dio e i poveri. Una partita che si è persa perché non si è voluta giocare accettando la banalizzazione del senso del tempo, del lavoro e del riposo come valore relazionale profondo e non moralistico. Qualcosa che è legata alla condizione umana ed è nel Dna dell’annuncio cristiano.

Ma è una partita persa per sempre?
Esiste la difficoltà di parlare di questioni complesse come il recupero della relazione e della cura e del senso del lavoro in una cultura che tende alla semplificazione. Come ho detto ci vuole un punto di svolta e bisogna riprendere il discorso dalle fondamenta.

 

 

 

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