Cambiare le regole

“Attento li esaminai e vidi di scoprire se possedessero oro”: è un brano del diario di Cristoforo Colombo, datato 12 ottobre 1492. Gli indigeni si erano avvicinati alle tre navi spagnole giunte in prossimità dell’isola di Guanahani, e il navigatore genovese, dopo averne lodato l’ottima costituzione fisica e la semplicità del carattere, smise di distrarsi e venne al sodo: l’oro, dov’era? Iniziava così la prima fase del rapporto dell’occidente con quelle che sarebbero diventate le sue colonie, un rapporto che i libri di storia delle nostre scuole definiscono tranquillamente – è un termine tecnico – “economia di rapina “, cioè, in parole povere, prendere là per portare qua. Successivamente il rapporto diventa più complesso e sor- gono altri modelli coloniali. Ma i sofisticati meccanismi finanziari di oggi, e una scienza economica paludata di equazioni e tecnicismi, non riescono ad eguagliare l’efficacia di quella formula elementare quando si prenda in considerazione il rapporto tra la politica finanziaria e i cosiddetti paesi in via di sviluppo, i quali, grazie a quella politica, sono, piuttosto, in via di fallimento. Molti dei paesi maggiormente indebitati hanno infatti più volte ripagato il loro debito iniziale, aumentato a dismisura dagli interessi e da nuovi debiti contratti per pagare i primi. Tutto comincia con le crisi petrolifere degli anni Settanta: la crescita del prezzo del petrolio consegna ai paesi produttori enormi quantità di dollari: si trattava, in effetti, di soldi stampati apposta per poter pagare il petrolio (i cosiddetti “petrodollari”), soldi che i paesi arabi, non potendo spendere tutto, riversarono nelle grandi banche internazionali. Queste banche li prestarono ai paesi in via di sviluppo: la loro destinazione naturale era quella di creare infrastrutture e avviare la produzione industriale. I prestiti erano stati concessi a un tasso di interesse molto basso; ma il tasso poteva variare in rapporto a quello internazionale. E fu proprio ciò che provocò l’avvento di Reagan al potere: gli Stati Uniti ridussero l’emissione di dollari e fecero ricorso al prestito internazionale, facendo così crescere il tasso di interesse; analogamente, crebbero anche i tassi dei prestiti già contratti dai paesi in via di sviluppo. Il risultato? Oggi l’Africa, per ogni dollaro ricevuto in prestito, ne paga 3 di interessi. La spesa per gli interessi, nel continente nero, è di 4 volte superiore a quella desti- nata alla sanità e all’istruzione. È evidente che un paese indebitato non è più in grado di operare autonomamente le proprie scelte di politica economica, ma deve accettare le ricette dei suoi creditori. È a questo punto, di solito, che il Fondo monetario internazionale impone quelli che chiama “programmi di aggiustamento strutturale “, che comportano un costo umano altissimo. La prima cosa che l’Fmi chiede, di solito, è la riduzione della spesa pubblica: significa meno soldi per scuole e ospedali. Per pagare il debito, i paesi indebitati dovrebbero produrre di più: ma i paesi sviluppati chiudono le loro frontiere sia ai manufatti che ai prodotti agricoli, facendo toccare con mano la favola del liberismo, che viene applicato in un’unica direzione. Ai paesi indebitati non rimane che vendere le materie prime, facendosi concorrenza tra loro e, dunque, abbassandone il prezzo. Oppure, vendono le imprese statali ai privati (stranieri, o ricchi locali appoggiati dall’estero), che naturalmente comprano quelle che funzionano meglio e si guardano bene dal reinvestire i profitti nel paese; o, infine, vendono ai privati il sottosuolo, consegnando alle multinazionali le risorse minerarie che dovrebbero garantire lo sviluppo futuro del paese. Come si diceva, prendere là per portare qua. I paesi indebitati vengono così a perdere la parte sostanziale della loro sovranità: i paesi forti, direttamente o indirettamente, sono in grado di imporre loro che cosa produrre, che cosa esportare, quali leggi fare. Il ruolo che un paese gioca sulla scena economica e politica internazionale non è affatto deciso da lui, ma da chi tiene le fila del gioco globale. L’azione dei paesi forti è ben descritta dal brano che segue: “Ma la tentazione maggiore da cui possono essere prese le comunità politiche economicamente sviluppate è quella di approfittare della loro cooperazione tecnico-finanziaria per incidere sulla situazione politica delle comunità in fase di sviluppo economico allo scopo di ottenere fini di predominio. In tal caso si tratta di una nuova forma di colonialismo”. Non è un no-global a parlare, ma l’enciclica Mater et magistra, che descriveva, con forte anticipo sui tempi, il neo-colonialismo contemporaneo. Dall’attuale situazione i paesi debitori non hanno alcuna possibilità di uscire da soli, e le istituzioni internazionali che li dovrebbero aiutare fanno esattamentel’opposto. In questo contesto, c’è chi rifiuta radicalmente la globalizzazione, dimenticando che c’è già. Altri si propongono, a me pare più ragionevolmente, di indirizzarla, affrontando il problema-chiave di cambiare le regole del gioco: un obiettivo per il quale vale la pena di spendersi. E chi non lo vuole fare per motivi ideali, ha buone ragioni per impegnarvisi ugualmente: la crisi argentina ha causato danni notevoli a molti nostri risparmiatori, dimostrando quanto le sorti di chi vive in continenti diversi siano legate. Ma c’è di più. Bisogna rendersi conto che l’incertezza sperimentata da molti argentini, passati in un lampo dal benessere al fare la fila alla mensa della Caritas, è un’incertezza sistemica, che coinvolge anche i paesi sviluppati, e dalla quale non si salva neppure il ceto medio. In questo senso, il modo di vedere la realtà adottato da una grande parte della scienza economica ha più lo scopo di nascondere che di rivelare. Infatti, se si misurano gli Stati Uniti in base al reddito pro-capite (che è una media), gli Usa sono ricchi, sono il Nord del mondo; se invece si guardano applicando i parametri dello sviluppo umano adottati dall’Unesco, che prendono in considerazione l’accesso alle cure mediche, all’istruzione, la qualità delle abitazioni, ecc., dentro gli stessi Stati Uniti si scopre una fetta considerevole di popolazione appartenente, per le proprie condizioni, al secondo, terzo e quarto mondo. Lo stesso vale per gli altri paesi avanzati: in tutto, è diventato maledettamente facile precipitare da una condizione di benessere a una di povertà. Non varrebbe la pena di pensarci prima? Arbitrato internazionale per il debito: intervista al Sen. Francesco Martone Sen. Martone, lei ed altri parlamentari sono al lavoro sul problema del debito internazionale dei paesi in via di sviluppo: quali sono i vostri obiettivi? “Vogliamo creare un meccanismo equo e trasparente, che metta creditori e debitori sullo stesso livello. L’idea è di arrivare ad un arbitrato internazionale che faccia riferimento al diritto fallimentare statunitense, in particolare alle procedure di insolvenza: quando un paese si rende conto che il continuare a pagare il debito comporterebbe tagli eccessivi alla spesa sociale, o un eccessivo impatto sull’ambiente e sulle condizioni di vita delle persone, deve essergli riconosciuto il diritto di congelare il pagamento del debito e di iniziare una istanza di arbitrato. “I paesi interessati dovrebbero, insieme ai creditori e a rappresentanti della società civile, dei sindacati, delle altre parti in causa, poter nominare due arbitri indipendenti che a loro volta ne nominino un terzo, per iniziare un processo di revisione contabile dei debiti”. E il ruolo del Fmi? “Per noi è fondamentale è che il Fmi sia allo stesso livello degli altri interlocutori, e non abbia più un ruolo superiore, o di garante, cosa che genererebbe un conflitto di interessi, dato che proprio il suo operato è in questione ” Voi sostenete che una parte dei debiti non debba essere pagata: perché? “Perché i debiti sono spesso collegati a casi di corruzione, o a progetti di sviluppo rivelatisi inutili, o accumulati da governi dittatoriali. Gli altri debiti, invece, andrebbero rinegoziati. Ma durante questo processo i flussi finanziari non dovrebbero essere interrotti, come, invece, avviene attualmente. “Tutto questo prende il nome di “Jubilee Framework”, un quadro di riferimento che raccoglie proposte già avanzate dalle Nazioni Unite e da alcuni professori universitari austriaci”. Su quali forze potete contare? “Per ora siamo un gruppo di parlamentari italiani, dell’Equador, del Perù e dell’Argentina; stiano cercando di costruire una rete fra parlamentari europei, e abbiamo contatti con africani e statunitensi. In Italia abbiamo costituito un gruppo di lavoro tra vari parlamentari che si sono occupati del debito: vorremmo arrivare ad una mozione riguardante l’arbitrato internazionale, da presentare prima degli incontri annuali del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale”. Il sen. Francesco Martone, indipendente, fa parte del gruppo dei Verdi; ha lavorato a lungo sui temi del debito estero, della globalizzazione e dell’ambiente; è stato presidente di “Greenpeace Italia”, e tra i promotori della rete “Lilliput”.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons