Cambia l’articolo 18, come previsto
Come annunciato con i toni fermi e compassati del presidente Monti, la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro è ormai prossima alla dirittura d’arrivo. Oggi ci sarà l’ultimo incontro con le parti sociali, al termine del quale sarà redatto un verbale che registrerà i punti di accordo e quelli di dissenso. La lettera del 5 agosto 2011 indirizzata ai governanti italiani da parte dei titolari della Banca centrale europea chiedeva il superamento della “rigidità” della disciplina del lavoro. Compito che rientra tra gli obiettivi esplicitamente assunti da un governo di tecnici, in grado di elaborare profonde e radicali revisioni su alcuni settori determinanti, come la previdenza e il lavoro. Misure che il precedente governo non avrebbe potuto varare se non con il contrasto deciso dell’opposizione parlamentare e sociale.
Resta solo il parere contrario, tra i sindacati ammessi al tavolo, della Cgil, relativamente alla tutela dei licenziamenti individuali ingiustificati. Come titola in maniera efficace il quotidiano economico della Confindustria: «Articolo 18. Addio per tutti». Non si farà più distinzione tra nuovi o vecchi assunti. Se il licenziamento del singolo avverrà per motivi di carattere economico, che si rivelano infondati davanti al giudice, si perde il diritto a essere reintegrati sul posto di lavoro, ma si potrà ricevere un significativo indennizzo di carattere pecuniario. La possibile reintegrazione ha avuto finora una funzione di garanzia e di tutela preventiva. Ora sarà invece preventivabile il costo del licenziamento per l’imprenditore anche nel caso di mancanza della giusta causa. Resta, invece, aperta la possibilità del giudice di decidere se liquidare il danno o reintegrare sul posto di lavoro il dipendente licenziato ingiustamente per motivi disciplinari, mentre in caso di discriminazione accertata, la risoluzione del rapporto deve considerarsi nulla. Come osserva gran parte degli avvocati, resta difficile dimostrare che un licenziamento sia avvenuto perché il dipendente è di convinzioni diverse.
Più ampia e condivisa dalle parti sociali, in parte anche dala Cgil, è la riforma della flessibilità in entrata, e cioè tutti quei provvedimenti normativi e incentivanti che agevolano una buona occupazione, soprattutto per i più giovani. Ma è chiaro che il nodo del firing cost (il prezzo del licenziamento) è uno degli obiettivi necessari che il presidente Monti attendeva prima di partire per l’Estremo Oriente in cerca di soggetti interessati a investire in Italia. Secondo una tesi diffusa, condivisa dall’esecutivo tecnico, sarebbe questa incertezza sul possibile reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato, previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ad allontanare le migliori società di capitali internazionali.
Superato questo scoglio, con o senza accordo di tutte le parti sociali (quindi senza potere di veto da parte di nessuno, come dice Monti), la ripresa economica sembrerebbe possibile.
Contrariamente a una linea comune concordata di difesa dell’articolo 18, la Cisl, la Uil e la Ugl hanno, alla fine, accettato quella “robusta manutenzione” già prefigurata dal leader Cisl Bonanni. Mentre la Cgil si ritrova in mezzo al guado, tra la ricerca di un possibile spiraglio per non uscire da ogni trattativa e la scelta di riprendere in mano la difesa dell’articolo 18 come elemento di civiltà costituzionale.
La Cgil, per bocca del segretario confederale generale, Fulvio Fammoni, ha annunciato l’avvio di una «mobilitazione che sarà dura e articolata», durante il dibattito parlamentare sulla riforma. La confederazione guidata dalla Camusso prevede, infatti, che tra la riforma dei licenziamenti e quella previdenziale, già avvenuta, si arrivi nei prossimi due, tre anni a un «vero e proprio processo di espulsione di massa di lavoratori ultracinquantenni che si troveranno senza lavoro e senza aver raggiunto i requisiti per la pensione».