Calvario tiburtino

Ad un anno dalla elezione di Virginia Raggi al Comune di Roma i malesseri della città non sono diminuiti. I mali vengono da lontano. L’esempio della Tiburtina

Quattro anni fa ci trasferimmo d’ufficio con la redazione di Città Nuova: dal centralissimo quartiere Prati al periferico quartiere di San Basilio. Questione di risparmiare, ovviamente. Tutta la Tiburtina, dalla omonima stazione ferroviaria fino al Raccordo Anulare era un cantiere. Si vedevano operai al lavoro, scavatrici, mezzi meccanici in movimento. «Un po’ di pazienza e riusciremo ad avere una via di accesso rapida e nuova al nostro posto di lavoro periferico, dopo Rebibbia, dove arrivava la metropolitana», ci siamo detti speranzosi. Qualcosa ci faceva tuttavia dubitare del buon esito dei lavori: la scelta dell’amministrazione capitolina, allora guidata da Ignazio Marino, era stata quella di non creare ingolfamenti e strozzature totali dell’arteria, privilegiando piccoli cantieri mobili che avrebbero rapidamente risistemato brevi tratti di strada. Qualcosa effettivamente ha funzionato, e qua e là vi sono dei tratti di strada ormai a doppia carreggiata, asfaltate di nuovo, fornite di buoni marciapiedi, con attraversamenti pedonali degni. Ma dopo quattro anni stamani ho costatato che persino nei pochi tratti già pronti sono state sistemate nuove chicane per proteggere nuovi scavi operati sulle superfici stradali già asfaltati.

Quattro anni che sono serviti a qualcosa? Oggi non si vedono più operai al lavoro. Dicono che sia il problema degli appalti e dei subappalti, dei finanziamenti che ci sono e non ci sono, della poca organizzazione del lavoro. Fatto sta alla riunione mattutina delle 9.15 in redazione non siamo mai al completo, salvo rarissimi casi: ogni mattina abbiamo il nostro bollettino di guerra da redigere via whatsapp o mail o sms: Sara è ferma nella metro B, Carlo invece non riesce a salire a Rebibbia su autobus stracolmi e immobilizzati nel traffico; Aurelio è bloccato sul Gra; Luigia è ancora all’altezza della Romanina; Giulio arriva ma ansimante… Meno male che Aurora è arrivata alle 7… Così spesso si lavora da remoto, evitando trasferimenti micidiali. Soprattutto nei venerdì in cui, guarda caso il weekend diventa lunghissimo, c’è sciopero dei mezzi pubblici! E che dire delle “missioni” al Centro durante la giornata? Tra auto, metro, autobus, caldo torrido e assenza di marciapiedi, per assistere a una conferenza stampa, come m’è capitato ieri, debbo calcolare almeno quattro ore di calvario tiburtino.

I mali di Roma non possono essere messi sulle spalle dell’ultimo sindaco. Ci mancherebbe. Le responsabilità risalgono ad almeno una dozzina di anni addietro, quando l’amministrazione comunale cominciò a soffrire in modo macroscopico per le infiltrazioni mafiose, quando si cessò di avere una visione sul futuro della città, quando il tasso etico di tanti, troppi funzionari comunali, scese sotto i livelli di guardia, quando le privatizzazioni delle municipalizzate s’arenarono, quando a causa del fiscal compact e per far cassa si ridussero drasticamente i fondi destinati alla manutenzione della città.

Ma allora il male di Roma siamo noi romani? Lo dicono a Milano, a Torino, a Venezia. E anche qui a Roma. Non credo che si possa criminalizzare un’intera città, anche se il menefreghismo impera un po’ ovunque nella città dei cesari e dei papi. Servirebbe una grande umiltà da parte di tutti, politici in testa. E rimboccarsi le maniche, approfittando anche della presenza a Roma dell’eccellente procuratore Giuseppe Pignatone, attirando investitori e artisti. La città più bella al mondo dovrebbe essere amata un po’ di più. Nell’umiltà di darsi casomai un credibile “6 – -” e non di un “7 ½” (come la Raggi si è auto-lodata) che sa tanto di supponenza. Roma ha bisogno di umiltà e non di supponenza, per poter scendere dal calvario tiburtino.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons