Calderoli condannato per insulti razzisti

È arrivata la sentenza di condanna in primo grado contro l’esponente leghista, vice presidente del Senato, per le parole di offesa rivolte, nel 2013, verso l’allora ministro Cécile  Kyenge Kashetu
ANSA/PAOLO MAGNI

Il Tribunale di Bergamo ha condannato l’ex ministro Roberto Calderoli ad un anno e sei mesi di reclusione per odio razziale. L’episodio era noto, ma probabilmente sepolto sotto la cenere di una memoria che consuma troppo in fretta episodi, notizie e ricordi.

Era il luglio 2013. Durante un comizio a Treviglio Calderoli aveva apostrofato l’allora ministro Cécile  Kyenge Kashetu, originaria del Congo, cittadina italiana, medico oculista di Modena, paragonandola ad un “orango”.

Parole forti, che suscitarono un’ondata di indignazione nel Paese. Dal presidente Giorgio Napolitano, ai presidenti di Camera e Senato, a vari esponenti politici, l’indignazione fu unanime. Inevitabile l’incriminazione dell’allora senatore che, nei confronti del ministro aveva usato parole dispregiative.

«Il ministro Kyenge sarebbe un ottimo ministro, forse lo è, ma dovrebbe esserlo in Congo, non in Italia. Se in Congo c’è bisogno per le pari opportunità e l’integrazione, c’è bisogno là, perche se vedono passare un bianco gli sparano». E ancora: «Se navigo in internet e vedo le fotografie del governo italiano, ogni volta che vedo fuori la Kyenge, io resto secco. Amo gli animali (…), ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango. Io mi sento ancora sconvolto».

Parole che tradivano l’odio e l’intolleranza razziale, l’insofferenza per la posizione sociale del ministro, che viveva da anni in Italia, ricoprendo un ruolo importante sia sul piano professionale che su quello politico ed associativo.

Il presidente del consiglio, Enrico Letta, chiese le dimissioni di Calderoli dalla carica di vicepresidente del Senato. Incredibilmente, il Parlamento tentò di salvare Calderoli dal processo.

Un anno e mezzo dopo, la giunta per le immunità del Senato, bocciò la relazione del senatore 5 Stelle Vito Crimi e dichiarò che le parole di Calderoli erano espressione del suo pensiero politico, in quanto parlamentare.

Un’ampia maggioranza, a volte trasversale, con la presenza di alcuni esponenti Pd e 5 Stelle, votò a favore del “salvataggio” di Calderoli. Si poteva procedere per diffamazione, non con l’aggravante dell’odio razziale.

La storia, però, è andata avanti e, il 23 marzo 2018 la Corte costituzionale ha accolto il ricorso del tribunale di Bergamo ed ha dichiarato nulla la decisione del Senato. Perché il diritto alla libertà di opinione comprende gli insulti.

Si è aperto il processo che ha portato alla condanna, in primo grado, dell’ex ministro Calderoli, ad un anno e sei mesi di reclusione. La pena è stata sospesa.

Cecile Kyenge non si era costituita parte civile. Non era stata lei a far partire l’azione penale ed aveva già accettato le scese di Calderoli, che aveva cercato di rimediare con frasi più o meno scherzose, con riferimenti a papà Kyenge ed alla “macumba”.

«Non sono stata io a sporgere denuncia, ma è un bene che la magistratura intervenga – ha commentato Kyenge, oggi europarlamentare a Strasburgo – La politica, invece, si è distratta. Compreso il Pd. A Strasburgo per chi si macchia di parole razziste o discriminatorie, si toglie l’immunità e la diaria».

La notizia è passata su tutti i telegiornali nazionali. Pochi, o quasi inesistenti, i commenti. Nessun rilievo sul lavoro di magistrati che hanno svolto un lavoro immane per ribaltare il “niet” del Senato, arrivando fino alla Consulta.

Il clima, in Italia, è cambiato e produce anche questo. Ed i partiti, sia di maggioranza, che di opposizione, sono concentrati su altri temi.  Eppure, in un Paese normale, la condanna di Calderoli e le parole di Cecile Kyenge dovrebbero significare molto di più.

 

 

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