Il calcio piange la morte di Mihajlovic
«La batterò giocando all’attacco», aveva sentenziato Sinisa Mihajlovic annunciando in conferenza stampa a Bologna, 4 anni fa, la diagnosi di leucemia che gli era stata comunicata. Ma ieri, 16 dicembre, è arrivato il triplice fischio di un’intensa vita terrena nella quale si è distinto soprattutto nel calcio italiano sia da giocatore, per un mancino fuori dal comune, che, per caparbietà e carattere soprattutto, da allenatore. La triste notizia è arrivata tramite un messaggio della stessa famiglia, composta da moglie e 6 figli, che ha salutato Sinisa a soli 53 anni: non è bastato dunque quel trapianto di midollo osseo al Sant’Orsola di Bologna del 29 ottobre 2019. Ad inizio di quest’anno c’erano stati infatti nuovi campanelli d’allarme e, pochi mesi fa, l’esonero dal Bologna che probabilmente era già al corrente. I familiari, «nel dolore, comunicano la morte ingiusta e prematura», si legge nella nota diffusa in serata.
Il talento da calciatore
Mihajlovic aveva iniziato la carriera, nella sua, allora, Jugoslavia, figlio di madre croata e padre serbo: era nato a Vukovar, ma cresciuto nella vicina Borovo, dove aveva mosso i primi calci significativi da giocatore prima di passare al Vojvodina. Nel 1990 il grande salto nella più importante squadra serba, la Stella Rossa Belgrado: una compagine allora di talenti cristallini (non solo serbi), tra i quali Savicevic, Prosinecki, Stojanovic, Jugovic, che stupì l’Europa del calcio vincendo la Coppa dei Campioni battendo in finale al San Nicola di Bari l’Olympique Marsiglia.
Arrivò nel Belpaese nel 1992 firmando con la Roma e fuggendo così di fatto alla terribile segregazione tra serbi e croati che avrebbe dato luogo alla sanguinosa guerra nei Balcani. Un conflitto cruento e traumatico per un’intera generazione, a proposito di cui anche Sinisa raccontò più aneddoti personali, come quando il miglior amico croato fu costretto a mitragliare la casa dei suoi genitori e terrorizzarli. Vestì da protagonista le maglie di Sampdoria, Lazio e Inter. Sempre vincendo o lasciando comunque il segno, soprattutto grazie a un mancino fuori dal comune con il quale ha regalato saggi di micidiali punizioni che resteranno indelebili: quando calciava da fermo, difficilmente non centrava la porta con potenza. Il vero dubbio era sul portiere: sarebbe riuscito a parare? Prima del ritiro del 2006, da difensore ha infatti realizzato qualcosa come 69 gol e servito 55 assist in 455 partite. A questo aggiunge un palmares impressionante: 3 titoli nazionali con la Vojvodina (89) e Stella Rossa (91 e 92), due scudetti con Lazio (2000) e Inter (2006), 4 Coppe Italia con Lazio (2000 e 2004) e Inter (2005 e 2006), 3 Supercoppe italiane con biancocelesti 98 e 2000) e nerazzurri (2005). Con la Stella Rossa, oltre alla Coppa Campioni, nel 1991 arrivò anche la Coppa Intercontinentale. Quindi una Coppa delle Coppe con la Lazio nel 1999 una Supercoppa europea nello stesso anno sempre con i biancocelesti.
La carriera da allenatore
Inizia la seconda fase della sua vita nel calcio da allenatore all’Inter, come vice di Roberto Mancini, storico amico già dai tempi della Samp, per passare poi alla sua prima e poi, di ritorno, ultima panchina da allenatore, il Bologna. In mezzo Catania, Fiorentina, Sampdoria, Milan, Torino, prima del ritorno nell’Emilia rossoblù, con un’esperienza sulla panchina della sua Serbia tra il 2012 e 2013. Da tecnico non ha alzato trofei, ma si è distinto per alcune imprese notevoli. Su tutte, probabilmente, la stagione del “Miracolovic” a Catania, ove si accasò nel dicembre 2009 con una vera e propria impresa da centrare a campionato in corso: risollevare le sorti dell’ultima in classifica, la più quotata candidata alla retrocessione. Riuscì nella salvezza anticipata con tanto di esaltanti vittorie, come quella sul campo della Juventus e all’Olimpico contro la Lazio, poi il celebre 12 marzo 2010 in rimonta sotto la pioggia contro un’Inter di Mourinho che poi avrebbe sbancato il mondo del calcio centrando il mitico Triplete. «Il suo carisma era la prima forza di quel Catania. Catania ti amerà ancora, mister, e noi ti ringrazieremo sempre per aver vissuto momenti epici», ha scritto la società etnea. Come del resto sono stati innumerevoli i messaggi di cordoglio, dalle sue ex società a tanti atleti, senza contare molteplici esponenti di tutto il panorama politico.
Un ricordo indelebile: il carattere di Sinisa
Noto per un carattere focoso, verace ed estremamente determinato, in campo come in panchina, ha tentato soprattutto di forgiare il carattere di diversi giovani giocatori allenati. Tra tante conferenze stampa, sono forse due le più emblematiche espressioni che ne racchiudono la tempra. Nell’ottobre 2016, battuta la Fiorentina 2-1 con il suo Torino, in sala stampa un cronista chiese al tecnico serbo se per il suo centrocampista Benassi non fosse difficile portare la fascia di capitano a 22 anni. Mihajlovic, di getto, rispose: «Non è facile alzarsi ogni mattina alle 4 e mezza e andare alle 6 a lavorare tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questo non è facile. La fascia è un piacere, un orgoglio: lui è un ragazzo fortunato come tutti noi che facciamo questo lavoro». Nel marzo 2021 invece, un altro talento puro come Alex Del Piero, negli studi di Sky Sport, gli domandò il motivo della scarsa realizzazione dei calci di punizione. Sinisa rispose prontamente: «Se io da allenatore mi metto a calciare punizioni, ovunque sono stato, non solo a Bologna, e faccio più gol dei miei giocatori anche dopo 15 anni che ho smesso di giocare, ci sarà un motivo? Se si può migliorare con l’allenamento? Si può fare di più con l’allenamento. Bisogna farlo, ma bisogna avere passione per le cose. Noi dopo l’allenamento restavamo in campo ad allenarci, a fare le sfide, calciare punizioni. Ma io sono 12 anni che alleno: mai successo di trovare un giocatore che dopo l’allenamento mi dice: ‘mister posso rimanere per tirare le punizioni?’, glielo devo dire io. Perché se capita di domenica il gol non viene mica così. Tutta lì la differenza».
Il messaggio di Sinisa
L’ultima apparizione di Sinisa in pubblico era stata, a sorpresa, lo scorso 1 dicembre, in occasione della presentazione del libro dell’amico allenatore Zdenek Zeman. «Non ha vinto trofei sul campo ma in realtà ha vinto molto più degli altri, perché ha valorizzato tanti giocatori, ha fatto divertire i tifosi e soprattutto ha portato in Italia qualcosa di nuovo: prima del suo arrivo in Serie A si giocava per non perdere, con Zeman sono cambiate le cose. Ha lasciato un segno». Parole che avevano commosso persino il notoriamente impassibile tecnico boemo che poi, parlando delle sfide con Mihajlovic, ha sciorinato una battuta delle sue: «Preparavo spesso le partite su Sinisa, lui prendeva palla o ginocchio. Più spesso ginocchio». Per le risate di tutti.
Ci piace ricordarlo con le sue stesse parole, pronunciate nel 2019, in occasione dei suoi 50 anni, quando regalò ai colleghi della Gazzetta una toccante intervista, in cui dichiarò: «I capelli lunghi e i riccioloni di quando ero ragazzo hanno lasciato il posto ai capelli bianchi. Si sono pure diradati, e ora li difendo come prima coprivo i miei portieri. Eppure per l’energia e l’entusiasmo, me ne sento 20 in meno. Anche se certe volte penso di averne già 150, per tutto quello che ho già vissuto. L’adolescenza in Serbia, la carriera, l’Italia e le tante città, 6 figli, la povertà, i successi, l’agiatezza. Ma anche due guerre, le ferite, le lacrime… Oggi se mi guardo indietro posso dirlo, Sinisa, quanta vita hai vissuto». Eppure sembrano solo 53 anni, quelli che chiudono la sua esistenza tra noi: a Dio, Sinisa.
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