Caiazzo città martire

Viaggio della memoria nella cittadina campana in Terra di Lavoro sfiorata dal fiume Volturno

Se non fosse per l’amico Rosario che, in occasione di questo mio ritorno in Campania, mi ci ha accompagnato in auto, chissà se avrei mai messo piede a Caiazzo. Della storia millenaria di questa cittadina del Casertano adagiata su una collinetta ai piedi del Monte Grande e sfiorata dal fiume Volturno so a malapena che dopo la fondazione osca ha visto passare etruschi, sanniti, romani, longobardi, normanni, svevi, angioini e aragonesi.

Nonostante ciò Caiazzo è sempre stato un nome a me familiare per essere legato ad un episodio drammatico dell’ultima guerra vissuto da mia madre; episodio della sua giovinezza, che lei riviveva – ogni volta che lo raccontava – come fosse la prima volta. Di qui il mio desiderio, dopo la sua morte, di visitare i luoghi reali del racconto.

Nel 1943 mia madre aveva 20 anni ed era fidanzata con mio padre, militare in Francia, quando, in fuga da una Napoli stremata dai continui bombardamenti alleati, sfollò con mia nonna, tre sorelle, due fratelli e una zia materna in questa cittadina dove già avevano trovato riparo altri parenti.

«Ricordo perfettamente il giorno della partenza – scrive nella sua memoria consegnata all’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano –, perché era la vigilia della festa dell’Assunta, giorno del mio onomastico: era il 14 agosto». Con il trenino della ferrovia Napoli-Piedimonte d’Alife stracarico di altri sfollati, quel gruppo di otto arriva finalmente a Caiazzo, «arroccata come un presepe su un crinale a nord del fiume», trovando alloggio in un “basso” affittato per loro dai parenti già arrivati.

«Quelli dal 15 agosto fino ai primi di settembre furono giorni di spensieratezza per noi, emigrati dall’inferno di Napoli e ignari che la guerra si avvicinava anche lì a grandi passi». Lì tra bagni nel Volturno, passeggiate nei dintorni amenissimi e abbondanza di cibo, mentre a Napoli c’è scarsità di tutto, gli sfollati hanno l’impressione di trovarsi in un vero eden. Purtroppo l’armistizio dell’8 settembre, accolto con esultanza dai caiatini, è un brusco colpo a questo scenario idilliaco: da alleati divenuti nemici, i tedeschi stanziati a Caiazzo cominciano a requisire bestiame ed armi e a rastrellare gli uomini per lavori di guerra. L’interruzione della linea ferroviaria impedisce ogni possibilità di fuga e a peggiorare le cose arriva imprevisto mio padre, che nel disfacimento dell’esercito italiano ha pensato bene di riunirsi alla fidanzata e ai suoi cari: solo per cadere nelle mani dei tedeschi, riuscendo però quasi subito a fuggire.

Intanto ai primi di ottobre gli americani risaliti lungo la sponda tirrenica dopo lo sbarco in Sicilia cominciano furiosi cannoneggiamenti su Caiazzo da oltre il fiume. A questo punto i tedeschi intimano lo sgombero alla popolazione che, raccolte le poche masserizie, cerca rifugio sulle colline e montagne vicine. E tra loro anche i miei parenti, che vivono ormai un vero incubo. In attesa degli americani “liberatori”, quel soggiorno in luoghi inospitali, tra freddo, fame e continui terrori dovuti a veri e falsi allarmi, li riduce in uno stato pietoso. E in tale stato, appena avuto sentore che nei dintorni non è rimasta più ombra di tedesco, affrontano a piedi il ritorno a Napoli: una marcia di una quarantina di chilometri che è una vera odissea, tra scene di cadaveri e di distruzione lasciate dai nazisti in ritirata verso il nord.

Questo, in sintesi, il racconto di mia madre con molti particolari di colore, «occasione per riandare ai miei giovani anni, a quando ero felice e non lo sapevo».

Caiazzo, questa cittadina che aveva accolto papi, imperatori e sovrani, e prima degli orrori dell’ultima guerra aveva conosciuto gli scontri dei garibaldini, può ben dirsi città martire per i saccheggi, gli incendi (bruciate almeno tre case su quattro), i ponti saltati in aria, i ventidue innocenti civili, tra cui dieci bambini e una donna, trucidati per rappresaglia dei nazisti a Monte Carmignano. Per di più tre mesi dopo l’occupazione da parte degli americani, a fine gennaio 1944, un loro bombardamento fatto “per errore” colpiva la parte alta dell’abitato, il palazzo vescovile e la chiesa cattedrale, facendo diciotto vittime. Un’assurdità, ora che la guerra era tanto lontana.

Delle distruzioni di quel periodo non v’è più traccia. Mentre con Rosario mi aggiro per vie e piazze del bellissimo centro storico, leggendo negli stili di chiese e palazzi nobiliari i segni delle diverse epoche, cerco inutilmente di ravvisare qualche luogo tra quelli descritti da mia madre: soprattutto il «”basso” alla fine di una viuzza a gradoni inerpicantesi verso il corso principale» che accolse quel gruppo spaurito di donne e ragazzi, che tremavano ogni qualvolta sulla strada sentivano risuonare i pesanti scarponi dei soldati tedeschi.

Solo le feste e le sagre autunnali per la raccolta delle olive si ripetono uguali. E laggiù nella piana, il Volturno che scorre placido e maestoso è quello di sempre. La dove il fiume fa un’ampia ansa mi è più facile immaginare i miei parenti godere momenti di inaspettata spensieratezza prima che anche qui bussasse crudelmente la guerra che invano avevano sperato di lasciarsi alle spalle.

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