I caduti sul lavoro come scarti di mercato
È inaccettabile il modo che normalmente si usa per affrontare il problema dei morti sul lavoro. Il contatore è arrivato a 599 vittime dall’inizio dell’anno, ma il numero è purtroppo in continua crescita. Si nota, tra l’altro, una certa assuefazione nell’opinione pubblica. Quasi che, i singoli episodi, siano dovuti ad un ineluttabilità del destino.
La questione è quasi sempre affrontata in termini statistici, come fosse un andamento dei consumi, quasi un deprecabile effetto collaterale dello sviluppo da ridurre il più possibile con interventi legislativi e con tecniche di sicurezza e di prevenzione. Quest’ultime, ovviamente, sono assolutamente indispensabili e sono il minimo eticamente decente che un Paese cosiddetto civile deve fare.
Si fanno valutazioni in base alle percentuali riferite agli anni precedenti e basta uno scostamento percentuale in meno per dire che stiamo migliorando. Senza dire però che anche una sola morte per causa di lavoro è inaccettabile. È un problema grave che investe la coscienza profonda, personale e collettiva insieme.
Fino a qualche anno fa queste vittime venivano chiamate morti bianche, oggi invece si parla, in modo quasi asettico, incidente mortale sul lavoro: appunto è derubricato ad incidente, mentre è un fatto endemico e costitutivo dell’attuale modello di sviluppo.
Da parte mia preferisco il termine di “caduti sul lavoro”. Ricorda una guerra perché di guerra si tratta e come in ogni guerra sono soprattutto gli ultimi a pagare il prezzo più alto: è anche un forte indicatore di classe sociale.
Nel conteggio bisogna far rientrare anche le vittime di malattie professionali o di incidenti stradali avvenuti nel percorso da casa per il lavoro e ritorno. E poi rientrano, a ben vedere, anche le vittime “civili”, senza numero, prodotte dagli effetti tossici dell’inquinamento prodotto nel mondo dalle attività industriali.
Ma anche considerando solo le stime per eventi causati dallo svolgimento di attività lavorative, le cifre (dati ILO) sono terribili e ci dicono che ogni anno nel mondo muoiono sul lavoro 2,78 milioni di persone per “incidenti” (400mila) o per malattie connesse con l’attività lavorativa (2,4 milioni), mentre circa 160 milioni contraggono malattie o infermità permanenti.
La questione è certamente molto complessa, ma si tratta di vittime sacrificali offerte all’idolo della ricerca del profitto ad ogni costo, con la competizione esasperata che produce scarti di ogni tipo, umani e non.
Nei processi di flessibilizzazione e precarizzazione del rapporto di lavoro si nasconde spesso un pesante ricatto sul lavoro stesso anche per gli aspetti legati alla sicurezza. È evidente, in tal senso, l’impennata dei dati del 12,5% avvenuta in Italia dal 2013 al 2014 e cioè dopo l’introduzione del Jobs Act.
Questa è l’economia che uccide di cui parla papa Francesco e questa consapevolezza chiede che si metta in discussione profondamente l’organizzazione economica e della produzione. Occorre cambiare paradigma, qui sta la vera soluzione. Certo, nel frattempo, con urgenza, occorre operare per reprimere e contenere il fenomeno e i suoi effetti, fare di più tutto quello che può incidere per salvaguardare l’integrità dei lavoratori, ma anche quella delle comunità che vivono intorno agli insediamenti industriali.
Le normative ci sono, ma fanno molto fatica ad essere applicate e il numero dei controlli è assolutamente insufficiente. Abbiamo quasi 4 milioni e mezzo di imprese, ma i tecnici preposti alla prevenzione sono meno di 2 mila.Questo vuol dire che c’è la possibilità di fare un controllo ogni 20 anni in media per ogni azienda.
Allora occorre intervenire per incrementare gli operatori almeno a fino 10 mila, questo vorrebbe dire portare la media di un controllo ogni quattro anni e dotare gli addetti di strumenti informatici adeguati e di una formazione continua.
Occorre, poi, defiscalizzare tutti gli oneri per la sicurezza e anche tutti gli investimenti volti a rendere più sicuri i posti di lavoro e incentivare fortemente la formazione dei lavoratori e dei quadri delle stesse aziende. Una strategia lungimirante, considerando gli effetti positivi sull’ambiente, rimuovendo le cause che generano patologie di lungo periodo. Oltre agli incentivi per le azioni virtuose, necessita penalizzare le imprese che non mettano in campo azioni virtuose.
Si tratta di una serie di interventi i grado di produrre positivi effetti occupazionali al prezzo di contenere, nel breve tempo, i margini di profitto delle aziende, che ne guadagnerebbero comunque in termini di competitività e di reputazione verso i consumatori. Tutto parte dalla trasparenza dovuta da ogni impresa in modo che sia accessibile la conoscenza su cosa, come e per chi produce.
Siamo, quindi, davanti ad una questione politica che non scagiona affatto da ogni responsabilità l’opinione pubblica. Solo una forte presa di posizione della collettività, infatti, può incidere sulle scelte di governo a favore del bene comune.