Caccia al virus
La sera del 30 dicembre 2019, il cellulare di Shi Zhengli, virologa cinese, squilla improvvisamente. È il suo capo: a Wuhan due pazienti si sono ammalati per un coronavirus sconosciuto. C’è bisogno di indagare. Shi non perde tempo, prende il primo treno per Wuhan. Durante il viaggio riflette. Ha paura. Da 16 anni studia i pipistrelli, serbatoio naturale di tanti coronavirus. Li cerca nelle grotte profonde della Cina, li cattura e preleva il loro sangue per scoprire in anticipo possibili virus mortali per gli esseri umani.
Il problema è che le popolazioni invadono sempre di più gli ambienti degli animali selvatici, aumentando i contatti e quindi la possibilità che un virus passi dagli animali agli uomini. Shi è preoccupata, perché nel suo laboratorio ha tanti di questi virus in cultura: e se le misure di contenimento avessero fallito e uno di questi virus fosse sfuggito nell’ambiente contaminando la popolazione? Arriva a Wuhan, prende i campioni e torna subito nel suo laboratorio. Li analizza. No, non sono i virus che ha in laboratorio. È un tipo completamente nuovo. Una sfida globale: il coronavirus Covid-19.
Malattie infettive
Sono anni che gli studiosi di epidemie infettive avvertono del pericolo. Da quando nel 2002 c’è stata l’epidemia di Sars, causata da un coronavirus proveniente dai pipistrelli, si è capito che epidemie globali (più o meno gravi) provocate dal contatto con questi animali sono inevitabili (quella di Wuhan è la sesta negli ultimi 26 anni). Anche altri animali possono essere serbatoi di virus pericolosi, come i maiali (nel 2016 epidemia Sads), i polli, i roditori. Il 24 febbraio 2020 la Cina ha varato una legge che vieta di vendere e consumare selvaggina, provocando milioni di disoccupati tra chi lavorava in questo campo: il consumo di selvaggina, infatti, è una tradizione nel Sud della Cina.
A parte questo, però, la prima vera difesa contro le pandemie è la prevenzione: dal 2008 il progetto mondiale One Health studia in modo integrato la salute di animali selvatici, bestiame ed esseri umani, prelevando periodicamente tamponi in modo da identificare in anticipo eventuali infezioni. L’obiettivo è prevenire le future epidemie visto che, secondo gli esperti, sono 5 mila i ceppi di coronavirus ancora sconosciuti. I Paesi più a rischio, oltre la Cina, sono le economie emergenti come India, Nigeria e Brasile, che tagliano foreste, aprono miniere, costruiscono nuove strade negli ambienti degli animali selvatici.
Ricerca
Nel frattempo il Covid-19 si è diffuso nel mondo a velocità impressionante. Tutti i laboratori di ricerca, compreso quello di Shi, sono sotto pressione per trovare farmaci in grado di ridurre le conseguenze dell’infezione (vedi sotto). La novità è che, per la prima volta e in modo massiccio, è in campo anche l’Intelligenza artificiale (Ia). Strumento principe di questa corsa contro il tempo sono i super-computer (poche decine in tutto il mondo), che analizzano, con la loro enorme capacità di calcolo, centinaia di miliardi di molecole conosciute, per valutare la probabilità che una di esse possa essere efficace contro il Coronavirus Covid-19.
Da quando il 17 gennaio scorso è stato reso noto il genoma del virus, si cerca di identificare un ristretto numero di possibili farmaci attivi contro il coronavirus, da produrre e poi testare in laboratorio. Si parte da 10 mila principi attivi già disponibili. Tra i 20 più potenti super-computer del mondo c’è anche l’italiano Marconi, che lavora nell’ambito del progetto Exscalate4CoV, in coordinamento con centri di ricerca e aziende private di tutto il pianeta. Visto che la pandemia è un’emergenza mondiale, lo sforzo di ricerca non può che essere mondiale. Il mondo scientifico sta dando l’esempio di cosa significhi una collaborazione planetaria, la stessa che dovrebbe essere messa in campo per affrontare il cambiamento climatico, le disuguaglianze economiche e altre sfide globali del nostro tempo.
Armi contro l’infezione
Molti laboratori stanno cercando di realizzare un vaccino contro il coronavirus, seguendo strade diverse. Una prima, classica, è quella di prendere il virus intero, attenuarne la potenza oppure ucciderlo, e poi reintrodurlo nel corpo del paziente per stimolare la risposta del sistema immunitario. Il problema è che, già al tempo della Sars, si è visto che a volte si provoca una risposta immunitaria eccessiva, che attacca anche gli organi sani. Un altro metodo è prendere solo una particolare proteina del virus, sperando che non provochi lo stesso problema. Una terza via è quella di iniettare nel paziente solo un frammento di Dna del virus. Questa tecnica ha funzionato nei topi, ma non ancora nell’uomo.
Vista la frequenza delle epidemie, il sogno sarebbe riuscire a realizzare un vaccino universale, efficace contro tutti i coronavirus (attuali e futuri). Nello sforzo di ricerca bisogna valutare anche i problemi di costo e di brevetti, che potrebbero impedire l’accesso ai vaccini ai Paesi più poveri. In ogni caso non si possono abbreviare i tempi per i test, prima sugli animali e poi sull’uomo: un anno e mezzo sembra il minimo necessario. Per questo motivo nel frattempo si cerca di sviluppare test diagnostici rapidi, per identificare subito le persone contaminate, e soprattutto provare farmaci già esistenti per altre malattie, capaci di ridurre i sintomi del Covid-19. Un’ultima linea di ricerca, che coinvolge l’ospedale Spallanzani di Roma, cerca una cura negli anticorpi sviluppati dagli ammalati guariti.
Medici, pazienti e… Ia
Europa. Ambulatorio medico. Persone in attesa. Entra una signora, racconta i suoi problemi, si fa visitare dal medico, ascolta con fiducia la diagnosi, si fa scrivere la ricetta per le medicine, poi esce soddisfatta. Entra un signore, si fa visitare, ma appena il medico gli spiega quale sia secondo lui la cura adeguata per la malattia, si altera, discute a voce alta, poi esce sbattendo la porta e spiegando alle altre persone in attesa che quel medico è un incompetente. Per quale motivo il signore è arrabbiato? Perché prima di entrare ha verificato i suoi sintomi con un’applicazione software (App), disponibile su cellulare, che emette una diagnosi sulla base dei sintomi che l’utente comunica. L’applicazione è basata su algoritmi di Intelligenza artificiale. La diagnosi Ia, però, è diversa da quella del medico, e come conseguenza il signore ha perso la fiducia nell’operatore umano.
Africa. Villaggio sperduto nella savana. Non c’è ospedale, non c’è medico. La ditta che produce un’App di medicina digitale fa una pubblicità capillare, illustrando i vantaggi di una diagnosi immediata, disponibile sul cellulare. Per chi ha un telefonino di vecchia generazione, su cui non girano le App, basta chiamare un numero verde. Risponde un’operatrice che si fa descrivere i sintomi, li inserisce nel computer e poi comunica a voce la diagnosi fatta dall’applicazione di Ia. Siccome le malattie tipiche sono diverse in Europa e in Africa, la ditta ha creato un modulo specializzato per le malattie africane. Il grande vantaggio dell’Ia è che, una volta imparata una nuova malattia o cura, non la dimentica più.
Questa rivoluzione della medicina personale “fai da te” creerà problemi che si stanno cercando di prevedere in anticipo. Il primo sono i troppi dati sanitari acquisiti, conservati e venduti dalle aziende private non si sa a chi. Questi dati possono essere usati dalle compagnie di assicurazione o dai datori di lavoro per profilare (e discriminare) i malati, soprattutto nei social.
Un altro aspetto è il “diritto all’oblio” di quelle che sono le tare genetiche o comportamentali della mia famiglia. Non voglio essere discriminato perché nella mia famiglia tanti magari bevevano o facevano uso di droga.
Altro problema delicato: le App e gli algoritmi non sono sicuri dal punto di vista sanitario. Possono sbagliare, quindi serve un protocollo per limitare i danni. Come succede per i farmaci, dovrebbero essere testati e approvati, prima di essere usati sul campo. Bisogna controllare e prevedere danni, errori ed effetti collaterali (anche involontari). Tra l’altro, spesso le aziende farmaceutiche modificano gli algoritmi a proprio vantaggio. Gli autori della maggioranza degli studi in questo campo, infatti, hanno ricevuto fondi dalle aziende farmaceutiche.
Infine, l’obiettivo primario è una sanità migliore, aumentando la vita di tutti, non solo quella di pochi ricchi fortunati. Per questo serve una governance mondiale della salute: l’Onu deve coordinare le regole definite dai singoli governi, contenendo allo stesso tempo l’appetito delle aziende private che vogliono i dati dei Paesi poveri.