Ca’ Zenobio degli Armeni
Uno dei più imponenti edifici di Venezia e tra i più significativi esempi del tardo Barocco veneziano è Ca’ Zenobio, nel sestiere di Dorsoduro. Principale punto di attrazione di questo palazzo, già sede, dal 1850 al 1997, del Collegio Armeno Moorat Raphael, ma tuttora appartenente ai padri armeni mechitaristi, è il sontuoso salone da ballo, i cui grandi specchi ampliano la magnificenza dello spazio. Ma l’emozione maggiore l’ho provata appena entrato, quando nella penombra dell’ingresso al pianterreno ho scorto una lapide con un nome e un volto noti: «A Daniel Varujan, martire e poeta educato sotto questo tetto ai sublimi ideali della fede e della patria…».
Proprio quel Daniel Varujan, di cui ogni bambino armeno conosce a memoria qualche poesia, soggiornò a Venezia, ospite dal 1902 di questo palazzo per i suoi studi liceali. Divenuto uno dei grandi rappresentanti del Simbolismo europeo, riuscì a fondere i diversi orizzonti poetici entro cui si formò (la nativa dimensione orientale e quella occidentale) in una sintesi originalissima.
Nato a Perknik, villaggio dell’Anatolia, il 20 aprile 1884, dopo i primi studi a Costantinopoli, proseguì la sua educazione a Venezia, dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Fremiti (1906). Di nuovo in Turchia, si sposò e trovò lavoro come precettore nel Paese natale. La sua fama di letterato e poeta crebbe dopo la pubblicazione de Il cuore della stirpe (1909) e Canti pagani (1913). Nel 1912 si trasferì a Costantinopoli, dove si dedicò con tutte le sue energie alla rinascita della cultura e della lingua armena, diventando l’anima del movimento che faceva capo alla rivista Navasart. Tre anni dopo, arrestato con altri scrittori, intellettuali e uomini politici armeni, Varujan venne deportato verso l’interno e ucciso il 28 agosto 1815, nel pieno della sua splendida maturità.
Di lui mi tornano in mente questi versi tratti da Il canto del pane, il suo capolavoro incompiuto: «Dolce notte estiva. La testa abbandonata sull’aratro/ l’anima sacra del contadino riposa sull’aia./ Nuota il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare./ L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama./ […] È dolce per me sollevarmi sulle ali del silenzio,/ ascoltare soltanto il respiro imperturbabile dello Spazio,/ finché i miei occhi si chiudano in un sonno magico,/ e sotto le mie palpebre rimanga l’Infinito con le sue stelle».
La tragica vicenda di Daniel Varujan mi aveva suggerito tempo fa queste righe – quasi un colloquio col poeta – che la visita a Ca’ Zenobio mi riporta ora alla memoria: «Era maggio, splendore di natura anatolica. Nessuna nube in cielo a minacciare uno di quei temporali passeggeri? Niente che facesse presagire l’orrore imminente, come accade talvolta quando stanno per aprirsi le cataratte del male? No: le stesse venerande chiese ottagonali, cristalli di fede, dovettero sembrare eterni a chi allora, candidamente, aveva sperato nel prevalere della ragione, dell’umanità, della pacifica convivenza. Ma quella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, notte per tutto un popolo e vergogna d’Europa, tolse ogni illusione. Tu, Daniel, fosti strappato alla tua famiglia, alla giovane moglie e ai due teneri figli, un terzo in arrivo. Facesti giusto in tempo a cacciare in tasca, con poche altre cose, il manoscritto del poema a cui stavi lavorando, Il canto del pane: vero inno gioioso alla vita e al lavoro dell’uomo, legato alla sua terra da una misteriosa sacralità. E via, verso l’ignoto.
«Stupisce come riuscissi, anche in uno squallido carcere e nelle angosciose trasferte, a scrivere qualche verso. Non occorre calma alla poesia, serenità contemplativa?… Ma no: l’apparente idillio dei campi da te cantato era già bagnato dal sangue dei papaveri, segnato dalle ferite inferte dalla falce… Chissà come andò, e quali furono gli ultimi tuoi moti e pensieri! Fra le cose di cui fosti derubato, ti trovarono nelle tasche quel manoscritto, finito poi negli archivi polverosi di qualche funzionario della censura turca, ignaro del tesoro che custodiva.
«Dopo la guerra, furono necessarie le più avventurose ricerche e una fortuna in denaro per riscattare quelle pagine gualcite. Vennero pubblicate tali e quali nel 1921, a Costantinopoli. Oggi anche in italiano. Veniva alla luce il tuo capolavoro, come altro tuo figlio: non di carne e di sangue come quello che non avevi potuto vedere. Ma anch’esso, a suo modo, perfetto. Reso tale dal tuo sacrificio, Daniel».