Burhan Ozbilici: il coraggio di fotografare la morte

Incontro con il fotoreporter vincitore dell'edizione 2017 del World Press Photo contest, con la foto dell'uccisione dell'ambasciatore russo ad Ankara lo scorso anno. Da lui parole di speranza per il giornalismo indipendente e per la risoluzione dei conflitti in Medio Oriente

Molti ricordano le sconvolgenti immagini dell’uccisione di Andrey Karlov, ambasciatore russo in Turchia, da parte di Mevlut Mert Altintas, giovane agente di polizia turco, in occasione di una mostra ad Ankara il 19 dicembre 2016. Ebbene, con quegli scatti fotografici, il fotoreporter turco Burhan Ozbilici, di Associated Press, è stato premiato con il World Press Photo of the Year 2017.

La Fondazione World Press Photo, dal 1955, tutela la libertà di informazione, inchiesta ed espressione come diritti inalienabili, promuovendo e tutelando il fotogiornalismo di qualità. Il World Press Photo rappresenta il più alto riconoscimento nell’ambito del fotogiornalismo, e, per quest’ultima edizione, oltre 5.000 reporter hanno presentato 80.408 fotografie tra le quali una giuria internazionale ha selezionato i 150 migliori scatti in diverse categorie (notizie generiche, sport, questioni contemporanee, vita quotidiana, Portraits, natura, ecc.). L’esposizione, la mostra di fotogiornalismo più visitata al mondo, viaggia per 45 Paesi in 100 città del mondo. Città Nuova ha incontrato Ozbilici in occasione di una lezione che egli ha tenuto a Napoli, a Villa Pignatelli, dove sono esposti i migliori scatti fotografici del World Press Photo contest 2017.

Burhan Ozbilici (foto di Fernando P. Arderius)
Burhan Ozbilici (foto di Fernando P. Arderius)

Può descrivere i momenti concitati dell’assassinio dell’ambasciatore russo?
Ero stato invitato da un amico alla mostra, quindi mi trovavo lì quasi per caso. Il clima era molto tranquillo. L’ambasciatore mi diede l’impressione di essere una brava persona e, dopo la sua uccisione, provai tristezza per lui. Pensavo che l’uomo alle spalle dell’ambasciatore fosse una guardia del corpo, invece, all’improvviso, ha tirato fuori la pistola ed ha iniziato a sparare, colpendo a morte il diplomatico. La mia testa ed il mio cuore erano come impazziti ma, avendo lavorato anche in zone di guerra, ho tentato di restare calmo e di fare il mio lavoro, rappresentando al meglio il giornalismo indipendente, che è uno dei lavori più importanti al mondo, anche più di quello dei politici. Le persone nella sala si erano messe al riparo ai suoi margini, come potevano, altre erano fuggite. Io pensavo: «Se devo morire, non voglio morire per niente»; così sono rimasto in piedi ed ho continuato a scattare foto, evitando sempre il contatto visivo diretto con l’attentatore. Poi, ad un certo punto, mi sono reso conto di essere rimasto da solo nella sala, perché la sicurezza aveva fatto uscire tutti. Io, nel frattempo, avevo visto passarmi tutta la vita davanti agli occhi in pochi istanti ed avevo fatto appello ai miei colleghi morti, a mio padre (un eroe di guerra con Ataturk), ai miei tre gatti.

Quindi la bravura di un reporter è anche quella di trovarsi nel posto giusto al momento giusto?
Sicuramente questo può essere un elemento importante, ma si può comunque essere dei buoni giornalisti lavorando bene e non lasciandosi corrompere. Ho molta fiducia nella nuova generazione di giornalisti.

I giornalisti, e più in generale i media, vivono un momento difficile in Turchia
Fare il giornalista è sempre difficile. Ci sono momenti nei quali lo è di più ed altri nei quali lo è di meno. Ovunque ci sono buoni e cattivi giornalisti: quelli buoni vanno supportati. Lavorare per un giornalismo indipendente significa battersi per la democrazia, i diritti umani, la solidarietà, la pace, la lotta alla corruzione.

Il rallentamento del processo di adesione della Turchia all’Unione europea potrebbe avere favorito l’attuale situazione?
L’Unione europea è un grande progetto. Il posto della Turchia è in Europa, della quale, del resto, è parte da oltre cinque secoli. Lo stesso Ataturk, ai suoi tempi, promosse delle riforme innovative molto prima di tanti paesi europei. Attualmente il problema è politico e va affrontato e superato dai politici.

Stuart Franklin, presidente della giuria che le ha attribuito il premio World Press Photo of the Year 2017, ritiene che la sua foto potrebbe anche essere considerata come uno strumento per amplificare un atto di terrorismo.
Sono in disaccordo con questa affermazione. Io sono un reporter. Il problema è la realtà che ci circonda. Tutto quello che un giornalista deve fare è immortalare la realtà e raccontarla. Con onestà. La foto di un ambasciatore ucciso ha sollevato molto clamore. Ma dov’è questo clamore quando nei conflitti o negli atti terroristici vengono uccisi dei bambini, delle persone indifese, degli animali, la natura? Quella foto è fastidiosa, ma l’opinione pubblica deve conoscere il lato sporco della guerra e quella foto può sensibilizzare un vasto pubblico.

La sua foto, “Un assassinio in Turchia”, è la migliore foto giornalistica del 2017. La considera anche la sua foto migliore?
La considero senz’altro la mia foto più difficile. Molto più difficile di quelle scattate in Kashmir, in Iraq o in altre aree di conflitto. Però le mie foto più belle e, per me, anche più emozionanti, sono quelle che ho scattato nei campi che ospitano i rifugiati. Lì davvero si conosce l’umanità e si comprende quanto sia importante il giornalismo indipendente.

Quel giorno di dicembre, l’attentatore gridò: «Non dimenticate Aleppo. Non dimenticate la Siria». Come giudica l’attuale conflitto in Siria?
In Siria ed in tutto il Medio Oriente la soluzione politica è l’unica soluzione plausibile, secondo la strada tracciata dalle Nazioni Unite.

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