Buona scuola: grazie Invalsi
Premessa. Non ho esperienza. Sono giovane. Ho insegnato un solo anno. Lo premetto altrimenti non avrei il coraggio di dire alcuna parola di fronte ai tanti che giorno dopo giorno costruiscono la scuola italiana con fatica e sudore della fronte, e spesso senza alcuna riconoscenza di terzi (chiunque siano questi terzi, alunni, colleghi, presidi e men che mai genitori…). Soprattutto ci tengo a sottolineare che la mia non è che un’opinione, ma non riesco a tacere.
A me sembra che la valutazione nella nostra scuola sia necessaria. Ho studiato matematica nella vita e capisco un po’ – non troppo, quanto basta – di statistica e in quel solo anno (finora) di esperienza di insegnamento praticato mi sarei aspettata di trovarmi tranquilla e ben protetta al centro della campana di Gauss (curva statistica che descrive la “normalità” degli eventi), e invece la mia sorpresa è stata grande.
Ho trovato una percentuale di colleghi con caratteristiche decisamente, come dire, poco didattiche. E non parlo di sottili valutazioni sulla validità dell’insegnamento frontale piuttosto che il lavoro di gruppo o sull’uso della lavagna luminosa piuttosto che la noiosa lavagna nera (che fra l’altro di gran lunga preferisco). No, qui parlo di considerazione e rispetto della persona che hai davanti, che fra l’altro essendo un adolescente ha il “diritto” di non essere ancora adulto, mentre io – insegnante medio – in teoria lo dovrei essere. Considerazione e rispetto della persona che troppe volte ho visto calpestati in nome della buona educazione.
Per arginare queste situazioni, a me sembra che uno degli strumenti, non il solo, sia la valutazione. Certo, non sarà perfetto il sistema proposto dal Ministero – d’altronde difficilmente da quando sono nata mi è capitato di incontrare alcunché di perfetto su questa terra –, però è l’inizio di un cambio di mentalità. E questo credo sia importante. È evidente che la lettura che ciascuno di noi dà delle cose è cruciale, perché uno strumento di per sé sta zitto. Parla quando noi gli diamo voce, e dice in base a come noi l’usiamo. Allora perché invece che combattere lo strumento non cerchiamo di usarlo per far emergere i beni relazionali che sicuramente ci sono nelle nostre scuole?
Non si può dire, come spesso si sente proclamare, che i valori di cui si parla non sono affermati. In quest’ultimo anno mi è capitato, frequentando il corso di abilitazione, di leggere diverse normative sulla scuola e lì sono enucleati uno per uno esattamente i valori chiamati in causa. Nelle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo si trovano delle affermazioni che avrebbe benissimo potuto scrivere Don Milani. Nelle normative in materia di inclusione si cerca di mettere al centro esattamente la persona.
E già che ci sono, devo confessare un altro “peccato”: a me piacciono le prove Invalsi. Credo che, se mai un giorno riuscirò ad essere un’insegnante di ruolo, la mia didattica partirà da quelle. Non certo dalla somministrazione cieca di tali prove ai miei poveri alunni, dopo un estenuante allenamento simile a quello per i cento metri, ma dalla riflessione su come io posso modulare il mio modo di insegnare, la mia didattica, per far sì che i miei alunni siano capaci di risolvere quegli “iniqui” quesiti.
Perché, almeno per la matematica, ho toccato con mano come tali quesiti – per niente paragonabili ai test a scelta multipla, se non nella forma esterna – siano un ottimo punto di partenza prima di tutto per scoprire che la matematica non è un’inutile tortura a cui gli insegnanti da generazioni sottopongono gli alunni (e non solo).
In conclusione, capisco che queste mie visioni potrebbero essere dettate soprattutto dall’inesperienza di una scuola in cui non riesco a mettere piede, ma con cui vorrei collaborare invece di contrastarla. Se aspettiamo la riforma perfetta, infatti, finirà come chi sta alla fermata dell’autobus in un giorno di sciopero. Più intelligente sarebbe avviarsi a piedi.