Buon samaritano: l’elogio dell’oste
Da quando Erasmo ha utilizzato la parola per assegnare alla follia il compito di guardare alle cose da un’altra prospettiva, il termine elogio è stato utilizzato per ogni occasione. Eppure, non trovo titolo migliore per indicare il personaggio la cui figura è abbozzata appena nella parabola del buon samaritano. Forse c’è un altro termine, ed è scommessa sull’oste: è evidente il richiamo ad un Dio che per fare del bene si affida all’uomo.
Il racconto di Luca è la risposta di Gesù alla domanda di un dottore della legge. La domanda è insidiosa perché è mimetizzata. È formulata in prima persona («che devo fare per ereditare la vita eterna?»; «chi è il mio prossimo?»), come se fosse il problema esistenziale di una persona che chiede aiuto. L’uso della prima persona nei verbi e nell’aggettivazione, così come l’insistenza sugli interrogativi fondamentali della vita, si vestono dell’espressione di un disagio personale al quale Gesù non può rimanere insensibile, come ai problemi di tutti coloro i quali gli si rivolgono per porgli drammi personali e per richiederne l’intervento.
Poi, la domanda sembra essere posta da un discepolo, sia per l’invocazione iniziale di «Maestro», che implica il riconoscimento a favore della qualità dell’insegnamento di Gesù, sia per quella richiesta di «vita eterna», che compendia l’annuncio del Regno. Il dottore della legge si mostra ben informato sul Cristo ed assume le sembianze dell’alunno. E davanti un amico che si professa allievo le difese di ognuno calano: da qui il secondo elemento di insidia della domanda.
Gesù adotta un modulo in cui è l’interlocutore a dover rispondere ad un caso che si direbbe “difficile”; vi mette come protagonista un samaritano, cioè l’abitante di un villaggio probabilmente vicino a quello in cui risiedeva lo stesso dottore della legge; soprattutto, rovescia la domanda e non spiega chi è il prossimo, ma invita a farsi prossimo agli altri e per gli altri. Gesù sposta i termini del dilemma, non accetta di assecondare il gioco di chi vuole porlo in difficoltà e muta il terreno del confronto.
Il brano ha più finali, tutti lasciati incompiuti, come se fossero gli altri tempi di un film ed occorra ancora scriverne la trama. Il che significa anche che ogni lettore può farsi il suo finale.
Il primo finale è quello che riguarda il dottore della legge, invitato a fare lo stesso del samaritano. Se si considera che Gesù ha indicato quale figura positiva proprio l’abitante del villaggio vicino, in tale invito all’orgoglioso dottore c’è tutta l’esaltazione del bene operato da coloro che sono ritenuti estranei al “circolo della legge”. Luca non dice cosa ha fatto il dottore. Per ben due volte Gesù lo invita a fare qualcosa. A proposito del giovane ricco che chiede come avere la vita eterna, Marco racconta che Gesù lo ha guardato e lo ha amato. Ma anche il dottore della legge nel Vangelo di Luca sarà stato amato, già nel momento in cui ha posto le domande.
Di lui non si sa cosa abbia fatto: avrà preso sul serio la lezione di Gesù o sarà rimasto nell’osservanza formale della legge e avrà continuato a seguire la legge come un fatto intellettuale e non un’attività concreta che esige le opere? In fondo è facile amare l’umanità, è difficile amare la singola persona e curare le piaghe di un solo uomo.
Comunque la sceneggiatura di questo finale è piuttosto scontata: ci si immagina un dottore della legge che si allontana sullo sfondo, attento ancora solo a studiare e per questo dimentico dei problemi di chi gli sta vicino. Come facciamo noi tante volte, conoscitori della legge, anzi delle tante leggi e pronti ad interpretarle.
Più interessante è il secondo finale, quello che riguarda l’oste. Il samaritano investe su di lui, gli affida il ferito che è sempre lì «mezzo morto», gli dà soldi, e gli propone di assistere anche lui la vittima della violenza: «abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno». È una scommessa per tutti i protagonisti della storia.
L’oste: ha curato il ferito o, appena il samaritano è ripartito, lo ha buttato fuori sulla strada tenendosi i soldi avuti? Ha seguito le indicazioni del samaritano? E per quando e per quanto? Ha mai dubitato che il samaritano tornasse? Ha barato sul conto?
In questo finale affascina il fatto che il samaritano non è solo: potrebbe dirsi che lo stesso riconosce di non poter essere solo, ma che per necessità la sua attività deve essere completata da altri. Ed allora li coinvolge nella sua opera perché la continuino. Egli è certo un maestro perché insegna come fare e lo fa per primo. Ma poi deve cercarsi allievi e confidare in loro: il samaritano non sa nemmeno lui se l’oste lo seguirà o, al contrario, rimarrà indifferente alla sua proposta.
Il samaritano deve chiedere aiuto e scommette su un oste; quest’ultimo è coinvolto nell’opera iniziata da un altro e deve decidere se investirvi tempo e risorse, giacché non sa se sarà mai pagato. Il legame tra i due è la fiducia: l’oste deve fidarsi che il samaritano ritorni e lo rimborsi; lo stesso samaritano perde il ruolo di unico protagonista, perché ora c’è un comprimario accanto a lui.
L’oste va elogiato perché è colui che continua l’opera del samaritano e gli presta fiducia. Abbiamo bisogno di farci tutti osti che investono gli uni negli altri.
In teologia può accostarsi la fiducia ad una speranza che si fa operativa. Sul versante sociologico la fiducia comporta l’ammissione che la socialità umana è un valore sul quale inevitabilmente fondarsi. Una società senza fiducia è il deserto.
Ma non possiamo nemmeno rassegnarci ad essere le vittime dei problemi, delle violenze sociali e private, del male che pure esiste. Nessuno parla mai del terzo uomo, il soggetto ferito dai «briganti» che alcune versioni indicano quali «ladri». È scontato far rientrare nella nozione di ladri tutti i violenti che ci rubano qualcosa: la gioia di vivere, la libertà, il futuro.
Sul finale che riguarda il ferito le possibilità sono tutte aperte: si è salvato? Cosa ha fatto in seguito? Ha esercitato su altri la stessa carità manifestata a suo favore? O è rimasto per sempre senza energie, disponibile solo ad attendere aiuto?
Eppure, siamo noi i feriti, spesso ci siamo feriti da soli. Siamo anche noi «mezzi morti» ed abbiamo bisogno di passare dalla condizione di feriti a quella di osti che impiegano risorse, tempo, energie e fiducia, per sé e per gli altri, a partire da quel territorio dove si vive e che si vuole libero da ogni male.
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