Bruxelles e l’assordante silenzio di un attentato
Vado spesso a Bruxelles, come molti cittadini europei di ogni età, per studio, lavoro, vacanza. Mi trovavo nella capitale belga per un incontro al Parlamento europeo. Migliaia di persone visitano questa e altre istituzioni comunitarie, solo gli italiani sono 300 mila all’anno. Oltre questo, speravo di poter incontrare qualche amico, gustare qualche pietanza belga e tornare carico di cioccolata per la mia famiglia e la mia fidanzata. Tutto secondo routine, quella che caratterizza la Bruxelles di ogni giorno.
Invece, la mattina del 22 marzo, mi sono ritrovato da solo in una stanza d’albergo, lontano dai luoghi degli attentati, ma comunque frastornato per quanto avevo saputo dal post di un amico su Facebook, dalla telefonata della mia ragazza, da successivi messaggi di tanti amici. Una bomba all'aeroporto di Bruxelles Zaventem, quello stesso aeroporto dal quale era previsto il mio ritorno in Italia nel pomeriggio. Eppure, dalla finestra, la vita sembrava scorrere normalmente, mentre un insolito sole illuminava Bruxelles. Il primo pensiero è andato alle vittime: sembravano poche all’inizio; poche… quasi ormai ci fossimo abituati, mentre in realtà anche una è troppo. Cercavo informazioni: TV, Facebook, Twitter.
Dopo poco, apprendo di un’altra esplosione, questa volta in una stazione della metropolitana, nella zona dove mi sarei dovuto recare quella stessa mattina, quella delle istituzioni europee. E, dopo, vengo a sapere di ulteriori esplosioni. Subito contatto un’amica a Roma, al ministero degli Affari esteri, per farmi inserire nelle liste dell’Unità di crisi della Farnesia, non essendomi registrato su www.dovesiamonelmondo.it, cosa che invece sarebbe bene fare ogni volta che andiamo all’estero. Il primo pensiero è quello di partire, lasciare il Belgio, contattare la propria compagnia aerea di riferimento, ma è prematuro.
Si resta in attesa, in silenzio, un silenzio rotto solo dalle sirene della polizia. Poi Alitalia attiva un numero verde al quale chiamare per informazioni sui voli (ed in realtà nessuno sapeva ancora bene cosa fare, mentre dovremmo allestire unità preparate proprio a queste emergenze), dato che l’aeroporto di Zaventem sarebbe sicuramente rimasto chiuso per giorni; solo nel pomeriggio riesco ad essere spostato per l’indomani su un volo da Parigi, che avrei potuto raggiungere in treno da una vicina stazione. Ma, mi domando, partiranno i treni?
Dopo mezzogiorno resta l’ansia, ma la paura si placa: pare non ci siano altre bombe in giro. Dopo l’attesa, con altri italiani che si trovavano nell’hotel, decido di andare a pranzo con due conoscenti. La città era animata, la gente camminava veloce per le strade, ma in silenzio. Al ritorno, decido di andare alla stazione di Bruxelles Midi per informarmi circa i treni per Parigi. Arrivatovi, scorgo migliaia di persone in fila, penso che la stazione sia chiusa, ma invece no, era solo un controllo prima di entrare, a persone e borse. Un soldato mi guarda, mi tocca le tasche, dico che ho i telefonini e mi lascia passare. E se non fossero stati telefonini? I treni sarebbero partiti l’indomani, ma la biglietteria era chiusa, quindi mi sono precipitato ad acquistare un biglietto tramite Internet.
Nel pomeriggio esco di nuovo, non ho voglia di restare in albergo. Mi avventuro per le strade della città, trovo gente che scrive a terra con dei gessetti colorati nella Piazza della Borsa, accendendo candele, cantando, ballando, abbracciandosi. Uomini e donne, giovani e anziani, europei e stranieri. Incontro anche la ragazza che ha dato l’avvio a tutto ciò, una ragazza belga di nome Vittoria, che all’uscita da scuola ha acquistato dei gessetti colorati per esprimere sull’asfalto i suoi sentimenti, poi imitata da migliaia di persone.
Continuo a camminare per Bruxelles, ormai spettrale, con quasi tutti i negozi chiusi, dove l’unico segno di vita era qualche passante e la fila di gente fuori alle stazioni. Ritorno in Piazza della Borsa. Indugio, leggo i messaggi lasciati, ascolto ciò che si dicono le persone. Torno in hotel. Ma non voglio starci. Riesco per mangiare, ma non ho fame: mi concedo solo delle patatine belghe con due amici. Ritorno in albergo, preparo la valigia per domani e prego Dio che vada tutto bene.
Dormo poco e male, non vedo l’ora che albeggi. Ecco, è l’ora. Esco e vado verso la stazione di Bruxelles Midi. Incrocio Mario Monti, anche lui va Parigi: gli chiederei come mai siamo arrivati a questo, ma non ho voglia di parlare, voglio solo andare a Parigi. Passo tra due file e due soldati che controllvano persone e borse: a me non controlla nesuno. Finalmente il treno arriva e parte. Arrivo all’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle, faccio il check-in, supero i controlli di sicurezza: ecco, ce l’ho fatta! Attendo 5 ore il mio volo per Milano Linate, credo le 5 ore più brevi della mia vita. Decolliamo, atterriamo, prendo un altro volo per Napoli, dove arrivo a sera. Corro ad abbracciare la mia fidanzata, poi giungo a casa, dove ricevo l’abbraccio di mamma.
A distanza di due giorni guardo indietro. Mi rendo conto che l’Unione europea e i suoi popoli hanno un disperato bisogno di leadership, di persone autorevoli che vogliano farsi carico della casa comune che i nostri padri hanno iniziato a costruire negli anni ’50. Solo in una casa costruita sulla roccia staremo al sicuro, e quella roccia non può essere solo un trattato o degli interessi economici, ma deve essere un ideale comune di pace, benessere e solidarietà. Ovviamente, bisognerebbe risolvere i problemi geopolitici che scuotono le fondamenta di questo mondo. D’altronde, dovremo tutti prepararci a fronteggiare seriamente i rischi posti dal terrorismo seppure, come disse il card. Ruini in occasione dei funerali delle vittime dell’attentato di Nassiria, riferendosi ai terrorismi, «li combatteremo, li fronteggeremo, ma non li odieremo». In più, io prego per le vittime, quelle di ogni guerra e di ogni terrorismo.