Bruno Lauzi: dieci anni senza di lui

Uno dei padri fondatori della cosiddetta “scuola genovese”. Un adorabile bastian-contrario, tuttora riconosciuto come uno dei pochi veri maestri della scena cantautorale nostrana
Bruno Lauzi

Una delle sue canzoni più belle s’intitolava Il poeta; l’aveva scritta nel 1963 ed è tuttora considerata una specie di manifesto di quella nuova generazione d’artisti che da Genova s’apprestava a lasciare un segno indelebile sulla storia della canzone d’autore italiana del Novecento; si chiudeva così: “Ora dicono fosse un poeta e che sapesse parlare d’amore. Cosa importa se in fondo uno muore e non può più parlare di te”: un epilogo perfetto anche per suggellarne la vita, e per ricordarlo una volta di più.

 

Bruno era nato ad Asmara nell’agosto del ’37, figlio di un’ebrea convertita al cristianesimo, e di un antifascista ligure dal quale ereditò quell’amore per la libertà che avrebbe nutrito gran parte delle sue canzoni. Crebbe a Genova durante gli anni Cinquanta, e con il compagno di ginnasio Luigi Tenco condivise l’amore per il jazz, i musical, i grandi della poesia universale. A Milano, dove si trasferì per iscriversi a Giurisprudenza, scoprì i grandi chansonniers francesi – Brassens, Brel, Aznavour – e fu amore a prima vista. Cominciò a scrivere canzoni: la prima, con testo di Mogol, s’intitolava Bella e fu lanciata da un giovanissimo Giorgio Gaber nel 1960. Il suo debutto cantautorale avvenne due anni dopo e si dipanò nel tempo, mischiando cabaret e poesia, il bossanova brasiliano e l’humus culturale della sua terra. Un talento eclettico e reso brillante da un’ironia irresistibile che l’avrebbe accompagnato fino alla fine.

 

Il successo arrivò da lì a poco, grazie a una serie di canzoni destinate a diventare dei classici: Ritornerai, la succitata Il poeta, e ancoraIl tuo amore che presentò al Sanremo del ’65. La sua verve umoristica si sposò a meraviglia anche con Jannacci, Cochi e Renato, e Lino Toffolo, e lo spinse anche a scrivere canzoni per bambini, come la famosissima Johnny Bassotto. Era uno a cui piaceva collaborare coi colleghi – da Battisti a Bennato, senza porsi troppi problemi di affinità. Dalla sua penna uscirono capolavori memorabili come Piccolo Uomo e Almeno tu nell’universo per Mia Martini, L’Appuntamento per la Vanoni, Racconto e Certe cose si fanno per Mina; e a sua volta portò al successo capolavori altrui come Onda su Onda e Genova per noi di Paolo Conte, Naviganti di Ivano Fossati, Angeli di Lucio Dalla. Una trentina d’album spalmati in una quarantina d’anni, alternando la carriera musicale a quella d’attore e presentatore, la passione politica (era un liberale come suo padre) e opere letterarie, sia in poesia che in prosa.

 

Finché gli venne diagnosticato il morbo di Parkinson: una malattia terribile che non tenne nascosta; anzi, gli piaceva scherzarci su. Ricordo che una volta lo ebbi come ospite in un piccolo concerto radiofonico, e mi disse che sì, il Parkinson gli dava qualche problema “nelle foto vengo sempre mosso…”, ma offriva anche qualche vantaggio, almeno in cucina: “son diventato bravissimo a sbattere la maionese”, aggiunse guarnendo la battuta con quel suo sorriso sornione che si portava sempre addosso. Da lì a poco sopraggiunse anche un cancro al fegato, e non ci fu più niente da fare. Era il 24 ottobre del 2006.

 

Bruno Lauzi era fatto così: un adorabile bastian-contrario capace d’essere in ugual misura lieve e graffiante, tenerissimo e profondo. Un piccolo-grande uomo che continua a mancarci, ma che continua ad esserci, e a vivere nelle sue canzoni.

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