Bruni: Focolari, cercare nuove narrazioni
Da esperto conoscitore delle Organizzazioni a movente ideale ravvisa nel Movimento dei Focolari elementi che possono far pensare ad una crisi del Movimento stesso?
La crisi è la condizione normale dei movimenti e delle realtà umane ideali collettive, perché essendo in continua evoluzione, la “veste” di ieri diventa presto stretta crescendo. Tutto, o molto, dipende dalla gestione della crisi. Un’immagine efficace della crisi è il seme che nella terra vuole diventare pianticella: forza il suolo, lo crepa, spinge. Ma è solo un segnale che il seme è ancora vivo, e cresce. Il Movimento dei Focolari, con una fondatrice con un talento spirituale e umano enorme, che lo ha guidato con le sue prime compagne e compagni per circa sessant’anni, con una spiritualità cresciuta e sviluppatasi prima del Concilio e del Sessantotto, inevitabilmente deve gestire diverse crisi. La storia e il buon senso ce lo dicono.
Su che cosa si dovrebbe far leva perché la crisi diventi un’opportunità di crescita?
Le crisi principali sono di tipo narrativo, come ho cercato di esprimere in una recente serie di articoli per il quotidiano Avvenire. Anche i Focolari sono stati fondati e hanno vissuto di un patrimonio di racconti, storie, fioretti, canti, che hanno convertito e alimentato le generazioni precedenti. Bastava nominare alcuni di questi racconti per incantare e rinnovare l’incanto nei narratori (“Erano i tempi di guerra, e tutto crollava …”). Come tutti i capitali, però, anche quello narrativo conosce l’obsolescenza, nel linguaggio, nelle categorie, negli interlocutori. Occorre essere coscienti che il messaggio del carisma non si esaurisce con le sue narrazioni. Oggi ci sarebbe bisogno di artisti, intellettuali, giovani, e di persone di ogni età ed estrazione, che osino provare ad aggiornare quel primo capitale narrativo, che fa molta fatica oggi a continuare ad “incantare” come ai tempi di Chiara, e quando una storia che raccontiamo non incanta più gli altri, il primo a scoraggiarsi e a disincantarsi è il narratore.
Ripartire dalle prime storie fondative e tentare di aggiungerne di nuove, e raccontare, un pò diversamente, le stesse storie. La storia della Chiesa ci dice che senza la forza narrativa di Paolo, e poi dei tanti Padri e Dottori, avremmo perso per strada le categorie per comprendere correttamente i Vangeli. In queste operazioni narrative i rischi sono molti. Si può sbagliare a scegliere quali parti delle prime storie salvare come nucleo portante del carisma e magari conservare soltanto le narrazioni meno generative, o quelle più sensazionali (i francescani non hanno “salvato” la storia di Francesco tanto con i racconti delle stigmate, ma con la fedeltà al Vangelo sine glossa, a Madonna povertà, e continuando a baciare i lebbrosi). Oppure qualcuno può pensare che non occorra nessun aggiornamento delle narrazioni ma solo insistere con le antiche storie. Infine un errore molto comune e probabile è pensare di aggiornare il capitale narrativo ma, in realtà, scrivere un’altra storia, più moderna e accattivante, che però non ha nulla a che fare con il Dna del carisma originario. In genere questo errore si manifesta nell’eliminazione delle parte più “difficili” della prima storia, che sono quelle che più risentono del tempo. E così, ad esempio, prima si voleva annunciare il Vangelo ai non credenti e alle altre religioni, e dopo si torna a fare catechismo in parrocchia. Oppure si riduce il carisma a pratiche semplici e popolari – cene, gite, incontri di auto-aiuto – che hanno sempre un certo successo perché rispondono ai bisogni primari della socialità, ma che riducono molto l’originalità e la novità del carisma. Tutti capiscono, ma capiscono “altro”. Per evitare questo errore, che in parte è già operativo, bisognerebbe monitorare che cosa accade, ad esempio, nell’auto-gestione delle comunità locali oggi che i focolarini “consacrati” sono pochi e delegano la gestione concreta delle comunità: e capire se si sta tornando ad assomigliare troppo a gruppi parrocchiali, di preghiera o di assistenza, e sempre meno alle comunità profetiche dei primi tempi. Nell’Economia di Comunione, che seguo più da vicino, il rischio è reale: diventare un gruppo di imprenditori che cercano di seguire pratiche di gestione etica e un po’ di filantropia: tutti li capiscono, ma con il “sogno” di Chiara il rapporto è troppo tenue.
Lei parla spesso del ruolo delle minoranze creative. Da che tipo di persone sono composte e cosa possono fare nel caso specifico?
Il Vangelo e la Bibbia parlano spesso, forse soltanto, di piccoli gruppi che hanno una funzione di salvare tutti. Noè era uno solo, i profeti non-falsi pochissimi; e poi il “piccolo gregge”, il lievito, il sale. Tutta la teologia biblica è informata dall’immagine del “resto fedele”, che tornerà e potrà salvare l’intero popolo. Il problema dei movimenti carismatici è una specifica difficoltà a riconoscere e a dare spazio a queste minoranze profetiche e in genere ai riformatori.Identificandosi interamente con la dimensione carismatica della società e della Chiesa, il movimento fa fatica a capire che in quanto organizzazione è anche una istituzione (e non solo carisma), e se non dà spazio alla voce carismatica interna, perde profezia. Ma ci sono, qua e là, segnali di speranza, anche nei Focolari.
Cosa c’è, a suo avviso, di inespresso del carisma che Dio ha dato a Chiara Lubich e che bisognerebbe invece sviluppare?
C’è una forte laicità e una grande universalità, affiorati ogni tanto durante la vita di Chiara, ma che oggi rischiano di non esprimersi fino in fondo. I Focolari sono un movimento approvato dalla Chiesa cattolica, dove è nato e si è sviluppato. Ma non è soltanto un movimento cattolico: al suo interno hanno avuto un ruolo da protagonisti anche cristiani di altri chiese, non cristiani, non credenti. Anche Gesù era ebreo, e anche Lutero all’inizio era cattolico: ma poi abbiamo capito che erano anche altro, e i loro “movimenti” sono diventati qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle loro comunità di provenienza. C’è un immenso potenziale da sviluppare. Il carisma avrebbe la forza di raccontare diversamente e più laicamente la fede, il cristianesimo, la religione e lo stesso Dio, se avessimo la forza di osare di più, ed essere più profetici. Ma siamo ancora in tempo per provarci.
Quali consigli darebbe ad una persona che ha investito le migliori energie della sua vita credendo nell’”utopia” di Chiara e che adesso vive una fase di delusione o quantomeno di ripensamento?
Di continuare a credere alla promessa. Non cedere allo scoraggiamento, al pessimismo, alla malinconia, all’accidia individuale e collettiva, tentazioni molto forti in queste età di passaggio epocale. Mosè, il liberatore, non entrò nella terra promessa. La vide dal Monte Nebo, ma ci vide entrare soltanto i figli. Ogni vocazione, se è autentica, si ferma prima di attraversare il Giordano. La terra promessa è la terra dei figli. Nessuna vita adulta è l’avveramento delle promesse della gioventù, perché se lo fosse le promesse sarebbero state troppo piccole – come nessun figlio libero è l’avveramento delle speranze dei genitori. Al tempo stesso, è necessario capire che il linguaggio, le forme e i modi di quella “utopia” della giovinezza devono necessariamente “morire” per risorgere. Solo ciò che muore può risorgere. La crisi della prima utopia è la crisi del diventare adulti: tanti identificano l’infanzia con la prima promessa, e per diventare adulti lasciano. Altri non riescono o non vogliono diventare adulti per paura di perdere l’incanto del primo amore, e restano adolescenti tutta la vita, anche quando (e perché) sono felici e comodi. Qualcuno – ne conosco alcuni -sta tentando in questa età di passaggio di diventare adulto portando con sé le speranze e le utopie della giovinezza. È difficile, ma chi ci riesce inizia la fase più bella della vita, di quella propria e di quella della sua comunità.
Intervista tratta dal CN Extra del numero di Marzo del mensile Città Nuova