Bruna: una vita a servizio dei migranti
«I profughi che sbarcano incessantemente da noi, arrivano in una città già disastrata, ripiegata su sé stessa, reduce dagli anni di commissariamento (nel 2012 il consiglio comunale di Reggio Calabria era stato sciolto per “contiguità” con la ‘ndrangheta – n.d.r.), ma forse proprio loro, i nuovi ospiti, ci stanno dando la forza per rialzarci. Infatti, abbiamo ripreso vigore con questa azione».
Bruna Màngiola si riferisce al coordinamento per gli sbarchi dei profughi, di cui è responsabile, come lo è della promozione umana della Caritas, della mensa di strada e dell’Help Center reggini. Il colloquio con questa madre di famiglia impegnata da sempre nel movimento scout ha luogo in questa struttura messa dalle Ferrovie a disposizione dei senza fissa dimora che frequentano i dintorni della stazione centrale.
«Questo Help Center – spiega Bruna, badando contemporaneamente a chi è venuto a prendere un caffè o a ricaricare il cellulare – è nato nell’ottobre 2013, dopo i primi sbarchi. L’intero arredo è frutto di donazioni». Poi il discorso punta decisamente sui profughi. «Fin dai primi arrivi, mi ero resa conto – insieme ai responsabili della Comunità Papa Giovanni XXIII e dell’Ufficio diocesano Migrantes – che le istituzioni arrivavano fino a un certo punto: bisognava inventarsi qualcos’altro. Ci siamo inventati allora un coordinamento di volontari pronti a intervenire nelle emergenze».
Fa una certa impressione la consistenza di questo piccolo “esercito” gestito da Bruna: circa 150 persone, in gran parte giovani. «Provengono per lo più da associazioni ecclesiali come S. Egidio, Movimento per la cooperazione internazionale, Papa Giovanni XXIII, Migrantes, Masci, Agesci… ma chiunque è bene accetto, al di là dell’appartenenza o del credo. Appena so dalla prefettura di uno sbarco imminente, metto tutti in allerta tramite whatsapp. E con quanto entusiasmo aderiscono! Dopo i primi 20-25 disponibili devo stoppare, altrimenti siamo in troppi».
Ne avrebbe, lei, di storie da raccontare. «Dai primi racconti dei siriani ho saputo in che condizioni viaggiavano: stipati nel barcone per giorni, dovevano espletare sul posto le proprie funzioni fisiologiche. Ecco perché quando arrivano hanno quell’odore nauseante: io lo chiamo il profumo della sofferenza. Dico ai ragazzi: se sentite quel profumo, è il nostro turno di intervenire; se no, vuol dire che non c’è bisogno di noi».
Una volta erano arrivati in soli 250: «Sembrava cosa da liquidare subito, e invece… Fra loro c’erano persone ammalate, anche su sedie a rotelle, perfino una famiglia con quattro figli paraplegici gravi. Abbiamo dovuto mettere la mascherina perché non si resisteva. C’erano due ragazzine belline, sempre col sorriso: non riuscivamo a lavarle, io e Tiziana, tanto erano incrostate. Davanti allo strazio dell’infibulazione, abbiamo pianto così tanto che ci è sembrato di lavarle con le nostre lacrime».
«Sbarcano privi di tutto – continua Bruna con foga –, a volte anche dei documenti che sono stati loro sottratti o buttati in mare, dopo un viaggio anche di mesi attraverso il deserto prima della sosta in Libia, in luoghi che sono vere galere, in attesa di imbarcarsi. Unico loro bagaglio: le sofferenze e la speranza in un futuro migliore. I privilegiati che possono pagare di più viaggiano sopra coperta dove c’è aria, hanno il salvagente e possono stare accovacciati. Sottocoperta, invece, tutti gli altri. Il primo cadavere arrivato a Reggio era di uno morto in piedi accanto alla moglie incinta: non poteva cadere tanto erano pigiati. La tragedia è quando avviano i motori e il carburante bollente schizza fuori: quei poveretti cercano di aprire il portellone e di uscire, ma gli scafisti cominciano a picchiare. Chi insiste, lo gambizzano (ho visto parecchi con mandibole e spalle rotte e con pallottole nei piedi; un ragazzo presentava ustioni sul 50 per cento del corpo). Al terzo tentativo gli sparano in testa e lo buttano in mare. Per questo, a fronte dei numeri ufficiali, non sapremo mai quanti sono morti durante la traversata in quel mare diventato un immenso cimitero».
Il compito del coordinamento: «Dopo i controlli medici e le procedure della polizia, li rifocilliamo e riforniamo di scarpe e vestiario, provvediamo a lavare i bambini nelle docce da campo, facciamo animazione nelle strutture che li ospitano, assistiamo quelli ricoverati in ospedale…».
Stringe il cuore la piaga dei minori non accompagnati: «Provengono da Eritrea, Sudan e zone dell’Africa subsahariana dove ci sono guerre continue; i loro genitori si sono venduti quel poco che avevano per dar loro la possibilità di sopravvivere. Solo nel 2015, quando a Reggio sono sbarcati più di 17 mila profughi, i minori non accompagnati erano quasi mille».
L’ultimo sbarco del 2015 è coinciso col Natale. «Quando in prefettura ho visto i rappresentanti delle istituzioni quasi sopraffatti dall’emergenza, non mi sono trattenuta: “Ma ci rendiamo conto della fortuna che ci capita? Pensate: è Natale e Gesù stesso, nella persona di questi poveri, viene a trovarci!». Hanno subito cambiato atteggiamento».
Con un pizzico di orgoglio Bruna prosegue: «Siamo gli unici volontari invitati al tavolo di crisi quando c’è uno sbarco e quello che segnaliamo o denunciamo viene preso in considerazione. Ora anche le istituzioni si rapportano diversamente con queste persone in fuga da guerre, persecuzioni e fame. Cosa mancava all’inizio? Soprattutto quel calore umano di cui tutti abbiamo bisogno. Noi non ci vogliamo sostituire alle istituzioni, ma abbiamo un nostro stile: se si vedono accolti senza mascherina ma con un sorriso, appaiono più rilassati; qualche volta parte anche da loro qualche applauso spontaneo».
La reazione dei cittadini: «Nel 2014 c’era da parte di tanti una forte resistenza nei confronti dei profughi (la paura delle malattie, della perdita del lavoro…). Ad Archi, un quartiere di Reggio nominato per mafia, si era arrivati a bruciare la struttura che ospitava alcuni di loro. Che certi pregiudizi siano venuti meno, vedendoci all’opera, lo dimostrano anche le cospicue donazioni in denaro e in generi di prima necessità: tutto documentato su Facebook, con un grazie a singoli o associazioni che ci hanno aiutato».
C’è poi la mensa di strada (uno dei volontari è il marito di Bruna): «Due volte la settimana le nostre staffette portano i pasti nei vari punti della città. Trovo bellissima questa collaborazione fra parrocchie, gruppi e associazioni che magari prima andavano ognuno per proprio conto. Quest’anno sono venuti a fare volontariato anche da fuori. Partendo, dicevano: “Anche se da noi sbarchi non ce ne sono, questa esperienza di servizio possiamo riproporla nei nostri ambienti”».
Dall’Help Center bastano pochi passi per raggiungere “Casa Anawim” (i poveri di Dio), che accoglie alcune mamme profughe con i propri bambini. Colpiscono la cura e il gusto con cui è stata arredata (sempre grazie a offerte volontarie). Spiega Bruna, che ha cucito personalmente le tende: «È una casa sequestrata ad una famiglia mafiosa. Dove si giocava d’azzardo, adesso c’è un gioco ben diverso».
E a monte di questa attenzione ai bisogni altrui, la sua famiglia d’origine: «Dai miei ho imparato la gratuità e la gioia del donarsi. Per un certo tempo ho anche insegnato, poi ho smesso per dedicarmi alle cose in cui credo. Non me ne sono pentita, perché ho una vita così piena che l’auguro a tutti. La mattina apro gli occhi e: “Grazie, Signore, per oggi e per le occasioni che avrò di incontrarti!”. Il primo incontro è con lui a messa: da lì la carica per la giornata. Uscita di chiesa, riaccendo il telefonino, vedo le necessità che mi aspettano e via!».
Mi congedo da Bruna portando in cuore una sua frase: «Donarti gratuitamente agli altri può cambiarti la vita».