Bruckner salva larte
Ascoltare il maestro austriaco fa sempre una grande impressione. Le sue lunghe e complesse sinfonie iniziano inevitabilmente sul tremolo dei violini, da cui emerge una melodia tortuosa che si innalza verso l’alto, esplode, e poi ricade su sé stessa come un aquilone, sia cantata dai violoncelli o dai corni e sia variata dai legni e dagli archi. È sempre e comunque una nascita che poi inizia una nuova vita.
La "Sinfonia n. 7 in mi maggiore", eseguita dall’orchestra del romano Teatro dell’Opera lo scorso 7 novembre sotto le volte dell’ex chiesa gesuita di Sant’Ignazio, è appunto questo: un inno monumentale alla vita. Si estende come un'architettura grandiosa nel primo tempo e poi si tormenta, si alza fino all’estasi e scende con dolore nell’intensissimo "Adagio". Prosegue rapida nello "Scherzo" e chiude con un senso vittorioso di trionfo, come di chi ha combattuto e vinto una battaglia.
Il devoto Bruckner, come l’agiografia lo dipinge, è uomo complesso, di drammi interni anche se pacificati poi da una visione di fede che sublima la sofferenza. Ma che travaglio wagneriano, anche se di Wagner manca la desolata tristezza e l’anelito ad una luce mai del tutto goduta.
Ha diretto Markus Stenz, personaggio noto nel campo della direzione contemporanea ed interprete wagneriano di razza, con gesti ampi e sicuri. Nonostante i rimbombi di un'acustica poco felice, l’orchestra ha dato il suo massimo, in particolare il canto veramente caldo e accorato dei violoncelli. Chi volesse ascoltarla in una interpretazione storica per bellezza e profondità, può scegliere l’incisione diretta dal grande Carlo Maria Giulini.