Bros. Il totalitarismo disumano tra potere e obbedienza
«Sono disposto a diventare un poliziotto in questo spettacolo». «Eseguirò gli ordini anche se mi esponessero alla vergogna… anche se mi sembreranno contraddittori». «Non guarderò mai negli occhi i miei colleghi». «Eseguirò gli ordini come una statua classica, anche se non capisco questa frase». «Eseguirò gli ordini come fossi ferro-cianuro di potassio, anche se non capisco questa frase». «L’esecuzione degli ordini sarà la mia oblazione, il mio teatro». Sono solo alcune delle regole severe alle quali si sono attenuti i 22 attori-comparse in divisa da poliziotto americano tipica degli anni ’20, per partecipare a Bros (coproduzione internazionale) del regista Romeo Castellucci.
Sono persone anonime reclutate attraverso un annuncio a ogni tappa della città in cui lo spettacolo è rappresentato. La loro coscienza si ferma all’impegno assunto e controfirmato. Dopodiché ha inizio l’esperienza dell’alienazione in cui eseguiranno azioni senza capirne il perché e senza essere pronti alle conseguenze. Gli attori reclutati, infatti, non hanno imparato la parte, la imparano mentre la assumono, attraverso l’esecuzione di ordini impartiti. La massa di agenti si muove schierandosi in file compatte, in schieramenti frontali o di gruppi, in parate con grandi manifesti funerei con scritte e immagini, compiendo una serie di azioni. Alcune molto violente. Una di queste è l’insistita sequenza di un uomo nudo a terra percosso ripetutamente col manganello dai colpi amplificati. Altre vedranno imbavagliamenti, pistole puntate, blocchi, umiliazioni, soffocamenti, pestaggi e altre sevizie, tutte eseguite freddamente come se fosse un codice naturale inscritto in quegli uomini. L’indice comportamentale, di cui dicevamo all’inizio, consegnato agli ignari partecipanti (più due professionisti, Luca Nava e Sergio Scarlatella), prevede l’attenersi ciecamente agli ordini che riceveranno sul momento direttamente in scena attraverso un sofisticato sistema auricolare.
La rappresentazione di un totalitarismo disumano è data già all’apertura del sipario da alcuni imponenti macchinari tecnologici: degli inquietanti totem robotizzati rivolti verso la platea che ruotano minacciosi e lampeggiano emettendo forti suoni e rumori (partitura sonora Scott Gibbons), quasi a creare uno stato di allerta e di pericolo. In una penombra fumosa s’intravede la costruzione di un grande marchingegno – che in ultimo emetterà dei vapori facendosi cassa musicale d’organo e di canti gregoriani – e le sagome di uno schieramento di uomini. A rompere il buio è il lento avanzare di un anziano barbuto con tunica bianca e bastone (l’attore Valer Dellakeza) il quale, rischiarato da una fonte luminosa, inizierà a inveire contro il cielo, a impaurirsi, a recriminare, pronunciando parole incomprensibili. È la figura biblica di Geremia, il profeta che fu testimone diretto della distruzione e degli orrori dell’assedio di Gerusalemme: le sue Lamentazioni condannavano le pratiche idolatre, i soprusi dei forti contro i deboli, l’osservanza ipocrita e superficiale dei rituali (le frasi che pronuncia le leggiamo in un foglio consegnatoci all’ingresso). Gli uomini in divisa lo deporranno in un letto, compiendo intorno a lui e in altre sequenze una serie di azioni plastiche che rimandano anche a raffigurazioni pittoriche (una Deposizione, la Lezione di anatomia di Rembrandt, la scena della fucilazione del 3 maggio 1808 Goya), oltre a quelle di più stringente attualità (come il caso di George Floyd, o i G8 di Genova). Il corpo morto dell’anziano, martoriato prima e venerato dopo, ritornerà con le vesti insanguinate deponendo a terra una testa d’agnello. Castellucci fa del profeta l’unica voce dello spettacolo, colui che vede e denuncia, inascoltato, le ingiustizie la cui causa risiede nella profondità del “cuore perverso” dell’uomo.
I richiami al potere e all’obbedienza sono molteplici, in alcuni casi visivamente leggibili: come quello al Terzo Reich nella massa militarmente rivolta verso un fantoccio bianco tenuto in alto che muove le braccia a scatti, venerato e acclamato dallo schieramento compatto che s’inginocchia, alza le pistole, fa roteare i manganelli in aria, oscilla le teste, saluta ripetendo gli stessi gesti del despota. Questo plotone di affiliati si prostrerà davanti ad altre immagini di turno (un ritratto di Beckett, una mano totemica, la zampa di un palmipede, un babbuino); si ordinerà per una compiaciuta foto di gruppo con vittima al centro; si cospargerà di sangue per poi lavare le armi dentro un secchio; tenterà di smembrarsi scendendo in platea per incutere timore allo spettatore; proverà improvvise paure e crisi con spasmodiche convulsioni a terra; e tentativi di fratellanza presto repressi.
Il finale ci riporta alla circolarità di un sistema violento nonostante l’apparizione di un bambino vestito di una tunica bianca come quella del profeta, che cala dall’alto di un drappo nero con la scritta in latino “De pullo et ovo”, Del pulcino e dell’uovo. Sembrerebbe portare a una primordiale dimensione ordinata, a un futuro sovvertimento del male; e invece gli si metterà lo stesso distintivo degli agenti e in mano un manganello. Mentre i poliziotti di spalle indietreggiano, il piccolo avanza e scorrazza tra le loro gambe fino a scomparire nel buio. Sorprendente, stratificato e complesso, non sempre facile da decifrare per quel scardinare ogni struttura drammatica, il teatro di Castellucci è sempre potente, dotato di uno sguardo teso e d’immagini enigmatiche capaci di sovvertire iconografie e linguaggi scenici. Col rigore di un esperimento antropologico il dispositivo marziale di Bros ci consegna una vertigine di segni che va oltre la denuncia di un sistema poliziesco, insinuandosi come condizione, inconsapevole o meno, del nostro quotidiano e collettivo vivere.
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