Bronzi che sanno di oro
Assegnate le prime medaglie ai Giochi di Vancouver 2010. Dove un terzo posto può valere come una vittoria.
Si può arrivare vicino al sogno inseguito da una vita, quella medaglia d’oro olimpica che regala l’immortalità sportiva, ma alla fine si può sorridere nonostante l’occasione sfuggita. Si potrebbero usare mille alibi per giustificare una mancata vittoria di cui tutti ti accreditavano, ma alla fine si può accettare serenamente il verdetto del campo.
Fine dicembre 2009, quarantacinque giorni all’inizio delle Olimpiadi. Aliona Savchenko e Robin Szolkowy, una delle coppie favorite per il titolo olimpico a coppie del pattinaggio artistico, sono costretti ad interrompere improvvisamente gli allenamenti. Alla ragazza, nata in Ucraina ma di passaporto tedesco, viene diagnosticata una mononucleosi. Un bel problema, soprattutto se coincidente con una fase molto delicata della preparazione per i Giochi. Bruciando i tempi (in casi del genere il periodo di recupero è solitamente di circa un mese), Aliona ed il suo partner si presentano al via dei campionati europei che si disputano nella seconda metà di gennaio in Estonia. Ma commettono alcuni errori, ed anche a causa dei mancati allenamenti non riescono a pattinare ai loro abituali livelli, ovvero quelli che hanno permesso a questa bravissima coppia di pattinatori di vincere gli ultimi tre europei e gli ultimi due mondiali. Arrivano secondi, un risultato che fa comunque ben sperare in vista di Vancouver.
8 febbraio, quattro giorni all’apertura delle Olimpiadi. Durante una sessione di prova sul ghiaccio che ospiterà la gara a cinque cerchi, Robin si procura un taglio ad una mano toccando la lamina di un pattino di Aliona. Risultato? Tre giorni di stop e rinuncia alle preziosissime successive sedute di allenamento. I due ragazzi tedeschi non si lasciano abbattere da questo nuovo imprevisto ed il giorno della gara svolgono un programma corto di altissima qualità che li pone in seconda posizione provvisoria, a pochi centesimi di punto dai cinesi Shen-Zhao. L’oro è lì, a portata di mano. Poi arriva il giorno del programma libero. L’inizio è davvero buono ma, durante l’esecuzione di un salto che in allenamento gli riesce quasi sempre, Robin cade. Tutto sembra perduto, a questi livelli anche una piccola imperfezione può fare la differenza. I due pattinatori si guardano negli occhi ed in una frazione di secondo ripartono concludendo l’esercizio in modo superlativo. Alla fine riescono ad aggiudicarsi la medaglia di bronzo.
Dopo una grande stagione Armin Zoeggler, uno degli atleti di punta della nazionale italiana a Vancouver, si presenta al via della finale olimpica dello slittino maschile con il ruolo di uomo da battere. Alla sua portata il terzo titolo a cinque cerchi consecutivo, altro alloro da aggiungere ad una inarrivabile collezione di successi che può già vantare 49 vittorie in coppa del mondo, 5 titoli mondiali e ben 4 medaglie olimpiche (bronzo a Lillehammer ’94, argento a Nagano ’98 e oro sia a Salt Lake City nel 2002 che a Torino nel 2006). L’atleta meranese è un tipo che non lascia nulla al caso e ormai Il tracciato olimpico per lui non ha più segreti. È stato infatti tra i primi a provarlo (appena ultimato l’impianto fu invitato dall’organizzazione dei Giochi per testarlo insieme al tedesco Moeller), ne ha studiato il ghiaccio, l’ha percorso nella mente centinaia e centinaia di volte con lo scopo di memorizzarne ogni centimetro. Alla fine però, almeno secondo quanto affermato da tanti cronisti per i quali pare conti solo la vittoria, giunge “solo terzo” .
Ad uno specialista del ghiaccio e delle alte velocità come lui non hanno sicuramente giovato il clima caldo e piovoso, né tantomeno le decisioni resesi necessarie per la tragica morte del georgiano Nodar Kumaritashvili (la pista è stata accorciata per ridurre la velocità e la partenza è stata spostata in un tratto piano dove viene esaltata la potenza degli atleti, vero punto di forza degli slittinisti tedeschi). Nonostante tutto ciò Armin non ha accampato scuse e a chi, dopo la gara, gli faceva notare come questi elementi fossero alla base del suo “insuccesso”, il nostro campione ha risposto così: <<Non è il caso di parlare di queste cose. Dopo la tragica morte del nostro compagno georgiano non si poteva certo mettersi a discutere, qualcosa andava pur fatto, ed è stato giustissimo portare la partenza più in basso, anche se questo può avermi in qualche modo sfavorito. Certo, ha fatto caldo e anche questo non mi ha aiutato, ma poi alla partenza eravamo tutti nelle stesse condizioni ed i miei avversari sono stati bravissimi, probabilmente non li avrei battuti neanche se si fossero verificate le situazioni a me più favorevoli. La verità è che se non ho vinto l’oro è solo perché ho commesso io degli errori, ed è per questo motivo che sono comunque molto soddisfatto della mia medaglia>>.
Alle Olimpiadi ci sono successi che entrano nella storia. Come quello di Simon Ammann, che aggiudicandosi la prova di apertura dei Giochi di Vancouver è entrato di diritto nella leggenda del salto dal trampolino (per lui, terzo oro a cinque cerchi). O come quello di Alexandre Bilodeau, che imponendosi nella specialità gobbe del freestyle ha regalato al Canada la prima medaglia d’oro in qualità di paese organizzatore di una Olimpiade (per i canadesi nessun successo ne a Montreal ’76 né a Calgary ’88). Alle Olimpiadi ci sono però anche altri risultati, che forse fanno meno rumore perché non accompagnati dalla conquista di un metallo “pregiato”, ma che permettono di scoprire le storie di atleti che con il loro esempio mostrano cosa vuol dire il non lasciarsi abbattere dalle difficoltà, cosa significa vivere lo sport con sano spirito di competizione ed allo stesso tempo di rispetto per gli avversari.