A Brescia lo splendore dell’arte
Brescia, capitale della cultura, fa sul serio. Organizza mostre, concerti, eventi. Come quello eccellente a palazzo Martinengo, un ambiente ordinatissimo, che conserva lavori di Giacomo Ceruti, detto il “Pitocchetto”. Un artista che verrà celebrato dal 14 febbraio al 28 maggio in una grande rassegna al Museo di Santa Giulia e poi al Getty Center di Los Angeles.
Giacomo (1698 -1767) è pittore di affreschi, di ritratti, ma soprattutto è un regista neo-realista del ‘700, uno che dipinge i poveri, gli umili, i lavoratori. Con tenerezza, comprensione ma non compassione: i suoi poveri sono persone di grande dignità, superiore a tanti patrizi imparruccati e vanesii che pure ritrae. Ecco allora I due pitocchi (1730-1733), cioè due poveri scamiciati e dagli abiti con le toppe, sdruciti. Uno tiene un gattino fra le mani, l’altro ci sorride.
Si mostrano per quello che sono: gente misera, ma non miserabile, colta da un pennello caldo e amorevole. Ecco Il portarolo: indimenticabile lo sguardo dolce e profondo, già maturo, del bambino con la cesta di pane, che passa per la strada sullo sfondo delle mura cittadine, ovattato dal colore denso. Lavoro, con dignità, questa è la civiltà bresciana, come quella Lavandaia dagli occhi stanchi che si ferma a guardarci, sospendendo per un attimo il lavoro duro. Nessun vittimismo. Ceruti ama questa gente semplice e laboriosa. E’ il suo un “naturalismo” che parte da lontano.
Dal ‘500 dove tre artisti segnano una epoca speciale nell’area bresciana-bergamasca, unendo arte veneta e arte lombarda, colore e realismo.
Lorenzo Lotto si ferma a Bergamo una decina d’anni (1513 -1525) ed investe l’area di un realismo appassionato, di una religiosità emotiva che suggestionerà molti artisti come Andrea Previtali e Caravaggio. L’ Adorazione dei pastori nella Pinacoteca bresciana è un notturno lunare, una stalla con due gentiluomini-pastori protetti da due angeli-ragazzi del luogo, una Madonna dolce e un tenero Giuseppe: ritratti veri, sentimento. Come nella Sacra Conversazione del 1522 tra santi nordici e un Bambino riottoso, una Madonna malinconica, una santa Caterina in tensione.
Ecco poi dopo Savoldo, Previtali e Palma il Vecchio, l’anticlassico Girolamo Romanino, pittore della verità contemporanea: dipinge un Cristo barbone e sporco in Emmaus con il cameriere furbetto che guarda di traverso, una adultera strisciante a terra, una Dalila che taglia i capelli ad un gentiluomo-Sansone sotto l’occhio di un alabardiere. Caravaggio imparerà, eccome.
C’è poi Alessandro Bonvicino detto Moretto. Splendide pale d’altare della Riforma cattolica, devote e dalle tinte lunari, e ritratti, alcuni sconvolgenti. Il ventenne Girolamo Martinengo, in velluto nero, collana dorata al collo, cappello piumato: scocciato e distante, pallido, chissà cosa pensa. È antipatico con il suo fare superiore, ma fascinoso: forse sarà anche timido? C’è Lotto dietro questo ritratto, ma Moretto fa parlare prima di tutto il vestito e poi il volto. Farà sempre così: l’abito per Moretto è già una finestra sul carattere. Lo farà pure Giovanni Battista Moroni con i suoi personaggi – una galleria di nobili e borghesi vivi e tranquilli, talora meravigliosi come Il cavaliere in rosa. Continua una tradizione di realismo lombardo e di colore veneto che arriverà fino al ‘700 con Fra’ Galgario e Giacomo Ceruti, il “pitocchetto” di genio.
Lotto Romanino Moretto Ceruti I campioni della pittura a Brescia e Bergamo. Brescia, Palazzo Martinengo. Fino all’11. 6 (cat. Silvana editoriale)
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