Nel 1809 nasceva a Milano il primo museo statale italiano. Un anno di rassegne ed eventi.
Le due Cene in Emmaus del Caravaggio si fronteggiano nella sala attigua ai grandi dipinti di Savoldo, Tintoretto e Veronese. La prima tela, arrivata dalla National Gallery londinese, ritrae un Cristo imberbe, giovanile, che benedice una tavola imbandita, di fronte ai discepoli sbigottiti. È un Caravaggio “teatrale”, si direbbe, in contrasto con l’altra Cena – quella che la Pinacoteca ospita dal 1939 –, intima, una meditazione. Eppure, il Merisi l’ha dipinta nel 1606, dopo un omicidio. Misteri dell’arte. Le due opere, accompagnate da alcune tele giovanili come il Concerto di giovani del Metropolitan newyorchese o il Ragazzo col canestro di frutta della romana Galleria Borghese, formano la prima rassegna “Caravaggio incontra Caravaggio”, con cui il museo celebra il suo anniversario, organizzato giustamente attorno ad uno dei dipinti più eclatanti della Galleria. Non è che ad essa manchino i capolavori. Il viceré Eugenio di Beauharnais, decidendo di fondare, sull’esempio napoleonico del Louvre a Parigi – ottenuto razziando opere dalla Spagna, dal Belgio, dal Vaticano… – una raccolta d’arte “statale”, la inaugurava, nell’agosto 1809 con opere di maestri lombardi del Cinquecento, lavori di Bellini e Tiziano prelevati da Venezia. Nel 1811 ne arriveranno ben 470. Chiese e monasteri, soprattutto, vengono costretti a “donare” le opere migliori per il nuovo museo ad uso pubblico che, una volta caduto Napoleone, comunque, in barba ai trattati, non ne rispedirà che venticinque ai rispettivi proprietari… Vicende della storia. Certo è che tanti capolavori ormai sono alla portata di tutti, diffondendo una cultura della bellezza ad ampio raggio, in precedenza impensabile. Anche se, è giusto rilevarlo, parecchie opere di soggetto sacro, estraniate dal luogo d’origine, corrono il rischio di un approccio soltanto “esteriore”, mancando il supporto contenutistico che ne farebbe apprezzare il valore estetico compiutamente. La Sacra conversazione di Piero della Francesca o il Cristo alla colonna del Bramante nascondono un significato religioso profondo che sfugge agli osservatori, presi solo dalla bellezza formale, come accade di ascoltare passeggiando per la sala, nel moderno turismo del “mordi e fuggi”.
Certo, nei decenni la Pinacoteca si è andata arricchendo di capolavori tanto da poter dire che ogni epoca è rappresentata da opere di alto significato: una autentica storia dell’arte europea. Ci si riferisce, per citarne alcune, ai Ritratti del Lotto, angosciosi, o al Cristo morto del Mantegna; alla Cena di Rubens, festosa sempre, o ai ritratti di van Dyck; alle opere ottocentesche dell’Appiani o di Hayez – memorabile il ritratto del Manzoni –, fino alle luminose scene alpine di Segantini o crepuscolari di Silvestro Lega e al Novecento di Balla, Carrà, De Chirico, Morandi, Modigliani, De Pisis, Marini.
Con un tale patrimonio è naturale che i festeggiamenti prevedano, insieme a convegni e dibattiti durante l’intero anno (si veda il sito www.brera.beniculturali.it), una serie di mostre, oltre a quella citata sul Caravaggio, per far conoscere una raccolta d’arte, purtroppo, ancora troppo poco frequentata. È il caso della rassegna “La sala dei paesaggi”, che raccoglie un nucleo di tele sulla trasformazione della pittura paesaggistica, in particolare nei lavori di Marco Gozzi che fino al 1839 descrisse un mondo naturale che fa ancora sognare tanto sembra idilliaco.
Ma forse il momento più significativo del Bicentenario consiste nel restauro d’una tavola sempre affascinante, cioè lo Sposalizio della Vergine di Raffaello (1504), gioiello della Pinacoteca, su cui è giusto dunque fermare più a lungo lo sguardo.
Raffaello, da Urbino a Brera
Per comprendere un poco quest’artista così naturale da risultare “difficile”, è imprescindibile salire e stare ad Urbino, la “ventosa”. Gli spazi “interminati” che se ne dipartono diventeranno, nelle opere raffaellesche, e prima di lui, di Perugino e Piero, “terminati”, definiti, eppure miracolosamente aperti all’infinito. Sono spazi aerei, dolci fino alla tenerezza, come l’umanità raffigurata, ideale, che il circolo di alta cultura, intorno al duca Federico da Montefeltro, suggeriva. Ma nulla di lezioso nel giovane Raffaello, figlio d’arte, e certo enfant prodige, che nella dispersa Pala dell’Incoronazione (da Città di Castello, sul 1500, a diciott’anni) mostra nell’Angelo superstite quell’espressione di serena fermezza, di volto luminoso che egli non abbandonerà mai.
Architetto nell’anima, egli distende le figure nello spazio. Il ritratto della sua protettrice, la duchessa Eleonora Gonzaga, ricorda i fiamminghi nelle sottigliezze dei tessuti, ma s’impone come una costruzione forte e morbida a mezzo busto, dominante il paesaggio su cui sta sorgendo l’aurora. È il panorama dei monti e dei colli tra Urbino e l’Umbria, colti con la freschezza di un Giorgione. C’è una ariosità in essa e nelle tavole di questi anni, un respiro calmo, che trovano poi il punto d’arrivo nello Sposalizio di Brera. Trafugato dal generale napoleonico Lechi nel 1789 dalla chiesa di San Francesco a Città di Castello – ove sussiste una malinconica copia –, passato poi all’Accademia della arti milanesi nel 1805, forse ha costituito la prima idea per una raccolta pubblica d’arte, cioè quella che sarebbe poi diventata la Pinacoteca. È superfluo confrontarla con la medesima pala del Perugino (oggi a Caen, Francia) di cui ripete l’impostazione e la gestualità. Raffaello assorbe lo stile del collega (forse “maestro”) ma lo trasfigura. Il profilo del tempio circolare che domina lo spazio, lo chiude ma lo apre, attraverso la porta centrale, a orizzonti nebulosi, è maestoso ma non pesante. Vi circola un’aria leggera che rende tutto ordinato e libero. Libero il gruppo centrale nei movimenti armonici che si rispondono, liberi i colori densi, mai squillanti; liberante per l’osservatore poter raccogliersi in quella “misura” con cui Raffello racconta il sacro come fosse un fatto d’oggi, ma ripensato in una dimensione vicino-lontana da rendercela affascinante. Ripulite da poco le ferite inferte da un fanatico anni addietro e la cornice, tolte le macchie dei vecchi restauri, la tavola è un invito a godere della bellezza come essa si presenta, sotto la forma di una luce che viaggia per lo spazio, senza turbarlo. È questo forse il Raffaello da scoprire, ma sono pure le diverse facce della bellezza che la Pinacoteca offre a chi abbia la sensibilità di un percorso lento, ma appagante, attraverso le sue sale ordinate, con sobrietà e precisione tutta lombarda. Non solo Raffaello, a Brera, infatti, per quanto magnifico. Ma una occasione per gustare i diversi modi lungo la storia con cui la bellezza ha cercato di farsi trovare.