Bravo ragazzo, quel Zanetti
Lo hanno amato e lo amano le mamme e le nonne di mezza Italia: la faccia pulita, lo sguardo fiero, la schiena diritta, le gambe ben piantate. Educato, serio, rispettoso. Uomo di fede, impegnato nel sociale in favore dei bambini più poveri dei barrios di Buenos Aires. E i capelli sempre ben pettinati, non cosa da poco in tempo di crani adornati da creste barocche. Per 19 anni Javier Zanetti non è stato solo il capitano e la bandiera dell'Inter: ha incarnato l'emblema del bravo ragazzo.
Nel '95, quando l'argentino aveva attraversato l'Atlantico, il campione che tutti attendevano non era lui, ma il suo compagno di viaggio, Sebastian Rambert, rivelatosi ben presto poco più che una comparsa. La rivelazione fu invece il biondo Javier dal bisnonno friulano di Sacile: «Primissimo allenamento – racconta un'altra leggenda interista, Beppe Bergomi –, facciamo possesso palla: lui non la perde mai, gli resta sempre incollata al piede. Quel giorno pensai che avrebbe fatto la storia dell'Inter».
Da allora Javier avrebbe preso possesso delle fasce laterali del campo, destra o sinistra non importava: chirurgico nei tackle, roccioso nei dribbling, memorabile per le sue percussioni e le sue fughe solitarie, puntuale nel recupero di palloni e nell'impostazione del gioco. Le gambe possenti, costruite da ragazzo aiutando il padre nei cantieri edili di Avellaneda, gli hanno permesso di macinare chilometri e chilometri, su e giù per il campo, meritandogli il soprannome, poco poetico, ma molto azzeccato, di “tractor”. Ad aggiungere rispetto verso tifosi e avversari ai quei valori morali come lealtà, correttezza, onestà, che i genitori di questo emigrato alla rovescia gli avevano inculcato fin da ragazzo, fu l'allora presidente dell'Inter, Giacinto Facchetti. Javier gli è sempre stato riconoscente: «Ci sono state tante vittorie, ma la vera e unica vittoria è stata conoscerti», gli scrisse pochi giorni prima che Facchetti morisse. Alle parole aggiunse la promessa della conquista della Supercoppa e fece in tempo a mostrargliela, orgoglioso, in ospedale.
La fedeltà alla maglia, testimoniata dalla inesauribile dedizione negli allenamenti, dalla passione che sapeva trasmettere ai compagni, dal rispetto che nutriva, ricambiato, per gli avversari, sono il sale di cui il calcio di oggi ha sempre più bisogno.
Dopo l’abbandono di Zanetti, Maldini e Del Piero, e con Totti all’ultimo giro, gli uomini-bandiera sono scomparsi. Non ci sorprendiamo ormai più di vedere i nostri eroi intenti a promettere eterno amore a sempre nuovi tifosi. A loro chiediamo solo di non esagerare nello sbaciucchiare, irriconoscenti, ogni maglia che indossano.
I tifosi nerazzurri hanno già saputo accettare quest'anno, senza fare troppo chiasso, il cambio di mano dalla famiglia Moratti al magnate indonesiano Erik Thohir, convinti che la proprietà inevitabilmente passa, come passano gli allenatori, i giocatori, gli sponsor, gli stadi. Significa che i tempi sono cambiati, che la transizione è completa e irrevocabile: l’età del romanticismo azionario è finita. L’Inter non sarà indonesiana, come la Ducati non è tedesca e Bulgari non è francese. Loro l’avranno comprata, ed è importante. Ma i tifosi interisti l'hanno sognata e la sognano, ed è più importante. Solo due cose ormai restano: una città, la maglia e i suoi colori. È la riduzione di una squadra di calcio a idea platonica. Il tifoso non ha bisogno d’altro, per ottenere la continuità in cui crede. Al resto pensano i ricordi. E quelli in neroazzurro, per diciannove anni, hanno la stessa firma: Javier Zanetti. Con lui in campo, 857 partite, l'Inter ha vinto 16 titoli, 5 scudetti, 4 coppe Italia, 4 supercoppe italiane, una Champions league e una Coppa del mondo per club.
Gli anni di Javier all'Inter coincidono con gli anni segnati dalla presidenza Moratti, una famiglia che molto ha fatto, molto ha dato e molto ha speso per l’Inter: in questi 19 anni l'Inter non ha solo vinto, ha anche tribolato, sofferto, deluso, disperso un patrimonio di occasioni (non si scorda il 5 maggio del 2002) e di denari (i nomi dei compagni in neroazzurro che Zanetti ha voluto ricordare tutti sulla sua ultima fascia da capitano sono ben 270!). A conferma che l’Inter non è un club: è una forma di allenamento alla vita, un esercizio di autoironia, una sottile malinconia: non dimenticheremo questi 19 anni. Grazie capitano!