In Brasile vince Lula
Luiz Inácio Lula da Silva sarà per la terza volta presidente del Brasile. La coalizione da lui guidata si è affermata al secondo turno su Jair Bolsonaro. Una vittoria non di stretta, ma di strettissima misura: 50,9% dei voti rispetto al 49,1% raccolto dal suo avversario. Un risultato finale che la dice lunga non tanto su chi i brasiliani vogliano alla presidenza, ma su chi non vogliono. Una polarizzazione portata all’estremo, tant’è vero che le prime parole del vincitore sono state un tentativo di riconciliazione per superare gli steccati eretti per ottenere il voto. I due avversari ne hanno fatto entrambi uso a piene mani, perdendo anche la compostezza.
Ma che l’elettorato sia diviso tra due metà, non significa che si tratti di due opzioni comparabili in tutti i sensi. Il bolsonarismo ha alimentato permanentemente una narrativa che ha demonizzato l’avversario, come pure ha demonizzato chiunque esca dal seminato di una visione utilitarista e meritocratica del potere: dagli ambientalisti che denunciano l’incremento della deforestazione del polmone del mondo, la selva amazzonica, ai popoli indigeni disprezzati in questi quattro anni e, addirittura, trasformati in responsabili del depauperamento ambientale; dalla scienza che ha cercato di combattere la pandemia di Covid19, ostacolata con ogni mezzo dal presidente ancora in carica, alla giustizia stigmatizzata come parziale per aver tentato di opporsi alle sbavature anticostizionali del presidente ancora in carica. Ma spargere odio e paure non significa fare politica, quanto gestire un potere. Bolsonaro più che portatore di un progetto è parso il simbolo di una crisi della politica dalla quale il Brasile non è ancora uscito. E non è detto che basti il risultato di queste elezioni per uscirne.
Che Bolsonaro abbia fatto il suo tempo e fosse necessario un cambiamento, lo avevano colto da tempo i mercati, soprattutto quelli finanziari, che hanno fiutato nel suo governo l’assenza di un progetto di sviluppo ed una polarizzazione trasformata in un vicolo cieco con sforature autoritarie. Il settore produttivo, legato ad un conservatorismo di vecchio stampo, ha impiegato più tempo a capire. Ma alla fine è apparso chiaro che l’opzione Lula riportava in scena la politica e, soprattutto, uno spirito democratico indispensabile per tornare sulla scena internazionale.
Avrà vita facile questo terzo mandato dell’ex sindacalista, meccanico tornitore, divenuto uno dei più carismatici politici del Brasile? Pare difficile. Intanto dovrà governare con un parlamento dove il bolsonarismo ed i suoi alleati sono forti, segnato da una grande frammentazione accentuata dalla tendenza a rappresentare interessi economici settoriali. A vincere queste elezioni, poi, non è stato solo il Pt (in portoghese: partito dei lavoratori) di Lula, ma una coalizione di dieci partiti, più un numero importante di sigle di movimenti sociali. Il presidente neoeletto dovrà negoziare non poco. Tanto è vero che si annuncia un forte incremento nel numero dei ministeri che, dagli attuali 23, dovrebbero passare a più di 30. Si parla di un ritorno di figure di alto profilo morale, come Marina Silva, l’ambientalista co-fondatrice del Pt, oggi con poco peso politico ma con una forte carica ideale. Siamo ad portas di una possibile recessione, mentre le notizie economiche relative alla regione non sono migliori, anzi… Lo spettro della corruzione è ancora presente e tutt’altro che sconfitto, con un’esperienza simile a quella di Mani pulite in Italia.
Lo stesso Lula, che ha conosciuto il carcere per 19 mesi, parla di una sua risurrezione. La Corte Suprema ha annullato i processi di condanna, viziati dalla mancanza di imparzialità nei giudizi. Questo significa che Lula sia innocente dall’accusa di corruzione? Non è facile stabilirlo. Avrebbe dovuto farlo un processo giusto.
Chi scrive è convinto che il peccato politico di Lula non sia stato quello di arricchirsi illecitamente, ma la convinzione di poter cavalcare pragmaticamente la tigre di una corruzione che in Brasile ha raggiunto livelli stratosferici (basta considerare che solo lo scandalo Petrobras, la compagnia petrolifera di Stato, era nell’ordine di vari miliardi di euro) e che la crescita avrebbe in qualche modo superato il prezzo di convivere con i corrotti. Ma appena è finito il periodo di bengodi, il sistema ha rigettato il modello economico di Lula, centrato sullo stato distributore di ricchezza.
Dal primo gennaio 2023 inizierà una nuova tappa. Il gigante brasiliano vedrà tornare di scena la politica, questo appare certo. Ma ci sarà ancora da risolvere un problema al quale oggi nessun governo sembra in condizione di far fronte: come crescere economicamente in modo sostenibile sul piano ambientale e con una più equa distribuzione della ricchezza.
Vincere le elezioni non basta.
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