Brasile, militarizzazione della politica e politicizzazione dei militari
Abituato alle polarizzazioni, ormai è chiaro che quando il presidente Bolsonaro si sente alle corde ricorre a tale metodo. Nell’ultima settimana le voci su un eventuale golpe in Brasile hanno occupato ampi spazi nei media. La premessa sono state le dimissioni dei vertici militari. Nel giro di poche ore è stato rispedito a casa il ministro della Difesa, mentre si dimettevano i comandanti in capo delle tre armi.
Il governo ha minimizzato l’episodio, ma la cupola militare aveva chiaramente cominciato a prendere le distanze dal presidente, dalla sua catastrofica gestione della pandemia, dalla sua volontà di trascinare le forze armate nel dibattito politico e, soprattutto, nel sostegno al sistema costituzionale vigente. «Non vogliamo far parte della politica del governo, né di quella del Parlamento e meno ancora vogliamo che la politica entri nelle nostre caserme», aveva dichiarato mesi fa il comandante dell’Esercito, il generale Edson Leal Pujol.
Bolsonaro non ha gradito tale posizione e nel rimpiazzare i dimissionari sta facendo leva sugli ufficiali più giovani, invitando a considerare se non sia questa l’occasione per assegnare ai militari un ruolo diverso e politico.
Il presidente ha scommesso su un fattore chiave: la militarizzazione della politica e la politicizzazione dei militari. Lo prova la formazione del suo governo. Un quarto dei ministri sono militari, ritirati o attivi, e pure lo sono centinaia di altri funzionari che occupano cariche nei ministeri, presiedono 15 aziende statali e ne dirigono altre 92. Sono 6 mila i militari effettivi o in ritiro con incarichi governativi. Cosa implica ciò sul piano politico, lo ha chiarito il generale Pazuello quando nell’accettare l’incarico di ministro della Sanità ha confessato che di sanità non aveva idea e di essere lì «per eseguire ordini» e non per discuterli.
I risultati sono oggi visibili in modo drammatico. Un Paese che aveva vinto la sfida dell’Aids e messo sotto controllo molte malattie infettive, è oggi in ginocchio per una pandemia gestita in modo quanto meno irresponsabile. Negli anni 70 per sradicare la poliomielite è stato possibile vaccinare in un solo giorno 18 milioni di bambini. Oggi, mentre i morti sono più di 330.000 e superano i 3 mila al giorno, la campagna di vaccinazione avanza a rilento, tra 70 e 80 mila vaccinazioni al giorno, mentre le dosi scarseggiano.
Paradossalmente, le forze armate hanno invece preso sul serio la pandemia, seguendo i suggerimenti dell’Oms. L’indice di mortalità tra i militari è del 0,3%, mentre tra i civili è del 2,5%. Uno dei tre generali designati al vertice delle forze armate è proprio colui che ha applicato con successo tale gestione. Ed è probabilmente la contraddizione che hanno voluto denunciare con la loro posizione i generali sostituiti da Bolsonaro.
Intanto, lo spauracchio del colpo di stato ha spostato i riflettori sul tema, passando in secondo piano il caos sanitario, i governatori che applicano la chiusura nei loro stati per assicurare il distanziamento sociale ed evitare un collasso del sistema ospedaliero, mentre sono criticati dal presidente. Ed è passato in secondo piano anche il voltafaccia in Parlamento dei gruppi che avevano appoggiato Bolsonaro.
Nel suo libro “1984”, Orwell insegna che per un regime autoritario uno stato di guerra è più importante della stessa guerra. Lo stato d’eccezione che piace a Bolsonaro, al punto da invocare una specie di stato d’assedio, consente decisioni rapide e strategiche che esulano dalla normale discussione. Ma devono esistere condizioni speciali che oggi gli stessi militari negano, pur se a bassa voce.
Ma trasformare la democrazia in uno stato permanente d’eccezione, significa negarla nella sua essenza. Così come la presenza ingiustificata di militari in posti di governo, snatura il ruolo delle forze armate e rivela lo spirito antidemocratico di chi si crede investito di una autorità alla quale bisogna solamente obbedire.
E quanto ciò sia nocivo per la democrazia è persino superfluo segnalarlo.